Usurpazione, delitti, espiazione. Dal Macbeth di Shakespeare a quello di Verdi, la parabola nera del potere è un incubo inondato di sangue, immerso in una malefica nube di suggestioni fantastiche, misteriose e inquietanti: il punto d’incontro fra l’uomo e qualcosa che sta oltre. Di più, il “capolavoro di frontiera” verdiano, fiore isolato nell’affaticato mestiere operistico degli “anni di galera”, offre grazie all’inedita scelta di drammaturgia musicale, una concentrazione e una sintesi affascinanti quanto laceranti. L’inesorabile percorso di Macbeth e della moglie verso la dissoluzione, punteggiato di ingannevoli profezie e di allucinazioni da modernissimo senso di colpa, si svolge dentro all’essenzialità di un linguaggio musicale del tutto inedito nel bussetano: un’orchestra-personaggio che disegna nei sui colori cornice e sfondo con un’icasticità mai prima (e raramente dopo) raggiunta; una vocalità che scarta di principio ogni seduzione di romanticismo all’italiana per esaltare nel declamato e in quel che resta del canto melodico (spesso assai poco) la bruttezza interiore dei due unici reali personaggi del dramma, affiancati con analoga forza musicale solo dalle Streghe.
Al cospetto di un capolavoro anomalo come questo per l’inaugurazione della stagione della Scala, Davide Livermore, il regista in residenza dei Sant’Ambrogio degli ultimi anni (chissà se ci sarà qualche eccezione in futuro), ha confezionato un kolossal ad altissimo tasso di tecnologia che finisce per sacrificare al suo immaginario tutta la concentrazione e la disperata essenzialità e la tragica chiarezza messe a fuoco da Verdi. L’imponente apparato visivo, come sempre nutrito da suggestioni mediatiche diverse, fra cinema e arte moderna (in questo caso, specialmente il film di culto Inception di Nolan e i progetti dell’architetto Portaluppi nella Milano degli anni Venti) è sembrato infatti più di altre volte troppo carico e fine a sé stesso. Così, fra strabilianti proiezioni (la fida agenzia D-Wok) e una scenografia per molti aspetti sbalorditiva (Giò Forma), con piani diversi dell’azione, collegati da un ascensore-gabbia che sale e preferibilmente sprofonda, cornice e sfondo hanno finito per assurgere a protagonisti, lasciando i personaggi a fare da figurine nel rutilante gioco delle soluzioni visive.
Nel suo grattacielo in una città futuribile distopica e quindi per definizione opprimente/inquietante anche se vastissima, Macbeth un po’ sembra un gangster e un po’, forse, un esecrabile tycoon delle costruzioni, visto che tiene in salotto un modellino di qualche progetto futuribile. Sua moglie è più che altro la moglie del gangster, una parvenue grottesca in abito rosso da domatrice (costumi Gianluca Falaschi), sempre furente, mai somigliante all’incarnazione del Male che in lei vedeva Verdi. A un certo punto sul grattacielo compare (a rovescio) la scritta “Scottish Court Tower”, ma in realtà non è chiaro a quale potere la terribile coppia stia dando la scalata, fatto salvo che il suo simbolo, un po’ incongruamente per quel che si vede (ma in stretta relazione con le parole che si ascoltano) è un’antica corona. Il che fa il pari con l’altro vezzo secondo cui sulla scena ci si sbudella con spadoni provenienti da qualche universo parallelo indietro di almeno una decina di secoli rispetto al racconto per immagini. Quanto alle Streghe, l’elemento fantastico e misterioso è disinnescato facendole sembrare nel terzo atto impiegate, o collaboratrici domestiche, e all’inizio, popolazione della città che si aggira sotto il cavalcavia di una tangenziale: proiezioni mentali o forse oniriche del protagonista, naturalmente. E non è certo questo il problema dello spettacolo.

Il sovraccarico visivo fa parte della cultura pop, e visto che sul libro di sala scaligero un illustre musicologo, ponendo alcune domande al regista, considera che Macbeth sia un antenato dei videoclip, tutto si tiene. Salvo il fatto che dentro al peraltro lungo videoclip i personaggi sono spesso abbandonati a sé stessi. Della Lady un po’ si è detto: Anna Netrebko deve inventarsi cattiva ma al massimo risulta livorosa e poi canta troppo bene per potere essere considerata un’interprete come la voleva Verdi. Il quale, è ben noto, per quella parte sognava una “vociaccia” e una interprete capace di “discorso”, più che di canto. Ma si sa che il soprano russo – sempre più negli ultimi tempi – non conosce confini di repertorio. Qui propone una Lady Macbeth “mediana”, drammatica certo, ma in fondo di maniera, per quanto ad alto livello, raramente capace di scavare dentro alla parola prima che di esaltare la musica. E infatti la scena del sonnambulismo, al quarto atto, fa rabbrividire i presenti al Piermarini più che altro perché Netrebko la deve cantare su un altissimo cornicione del grattacielo di famiglia. Chi stava davanti alla Tv, come chi scrive, notava che era legata per sicurezza, ma era “compensato” da una vertiginosa proiezione verticale che faceva vedere in fondo in fondo la strada trafficata su cui la Lady si sporgeva pericolosamente, mentre cercava di pulire le mani da un sangue inesistente. Dettaglio indicativo per capire come Livermore abbia perseguito con determinazione anche una diversa specificità della visione da remoto, che ha dato qualche risultato significativo, al di là dell’idea di mostrare “da dentro” alcune situazioni – l’automobile di Macbeth, l’ascensore – sottolineandone la particolarità con il passaggio al bianco/nero.
Luca Salsi si è dato molto da fare per trovare, nel turbine delle immagini e delle scene in movimento, un “ubi consistam” drammaturgico. Il baritono parmense, che a sua volta canta benissimo ed è interprete verdiano di assoluto livello, ha lavorato a fondo per trovare il declamato giusto e ha disegnato il suo percorso verso l’abisso con la consapevolezza dell’impossibilità disperata di sottrarsi al suo destino. Detto che il coro, guidato da Alberto Malazzi, si è fatto valere con notevole efficacia sul piano musicale (ammirevole la resa di “Patria oppressa”) ma assai meno su quello scenico, restano le maiuscole prove dei due personaggi musicalmente di contorno, il basso Ildar Abdrazakov, che è stato un dolente e ben interiorizzato Banco e il tenore Francesco Meli, svettante Macduff nella sua aria del quarto atto. Positivo anche Iván Ayón Rivas come Malcolm.
Dell’opera si eseguiva la versione 1865, completa dei Balli scritti appositamente da Verdi per le scene parigine. Corretta la scelta del coreografo Daniel Ezralow di realizzare una pantomima, come voleva Verdi. Coraggiosa Anna Netrebko, che vi ha preso breve parte.
Il direttore stabile scaligero, Riccardo Chailly, ha diretto con sapiente attenzione ai colori scuri della partitura e alle sfumature delle dinamiche, trovando nella sua interpretazione il punto d’incrocio ideale per rendere come fluida complessità espressiva le diversità stilistica fra le due versioni (quella del 1847 e quella del 1865).
Accoglienze di prammatica, successo non trionfo, con dissensi per Livermore, accolti poco sportivamente nelle prime dichiarazioni. I cronometristi ufficiali della Rai, capitanati da Bruno Vespa, hanno fermato le lancette su 12 minuti di applausi. All’estero, sotto i 20 si storce il naso. In calo i dati Auditel, rispetto al recente passato: 2.064.000 spettatori, share 10,5%; nel 2019, per Tosca, erano stati 2.856.000 e lo share era stato del 15%. Ci si è messa anche la cosiddetta Scala del Calcio (quasi 4,3 milioni per Milan-Liverpool da San Siro su Canale 5, iniziata alle 21). Evidentemente non tutte le Scale sono uguali.