Opera

Nuove frontiere popolari della regia

Al Macerata Opera Festival nello Sferisterio, Graham Vick e Damiano Michieletto protagonisti assoluti L'inglese ordisce un provocatorio "Flauto magico" anti-establishment, uno spettacolo di forte impatto politico e ideologico che rovescia la drammaturgia mozartiana. L'italiano regala divertimento puro con il suo "Elisir d'amore" balneare, un allestimento pop e kitsch che esalta l'invenzione di Donizetti pur riscrivendo la narrazione e attualizzandola. Musicalmente il clou in questo secondo titolo, con un'ottima compagnia di canto (Sicilia, Osborn, Esposito sugli scudi) e l'incisiva direzione di Lanzillotta

Quest’estate allo Sferisterio di Macerata la regia d’opera, ormai da decenni la grande imputata nelle vicende della cosiddetta fruizione del melodramma, si confronta con se stessa in un singolare duello d’idee. Come dev’essere – per inciso – se un festival aspira ad essere considerato tale. Non è questione dell’ormai stucchevole confronto fra tradizione e innovazione, ovvero tra fedeltà e trasgressione. Molto più incisivamente, il Macerata Opera Festival giustappone, in questa edizione #verdesperanza, l’idea di teatro per musica di due fra i maggiori registi di oggi, che da lunga pezza fanno discutere e si fanno ammirare. Non senza rinunciare a un implicito confronto, nel terzo titolo del programma, con la creazione di Brockhaus e Svoboda, la cosiddetta “Traviata degli specchi”, che inaugurò nell’ormai lontano 1992 non tanto un nuovo corso nell’interpretazione scenica del melodramma storico, ma un inedito modo di “giocare” l’anomalo spazio dello Sferisterio e per esteso delle rappresentazioni all’aperto. Trovando la strada di una lunga e proficua esistenza anche sui palcoscenici tradizionali.

Lo spettatore curioso può dunque cercare, davanti all’immenso muro costruito nell’Ottocento per giocare al pallone con il bracciale, le domande e le risposte di Graham Vick e di Damiano Michieletto nei confronti di due pietre miliari dell’opera fra Classicismo e primo Romanticismo, fra drammatico e comico, tra favola e commedia, oggi diremmo fra impegnato e ridanciano, come Il flauto magico e L’elisir d’amore.

Il segno più controverso è quello, per molti aspetti dirompente, che lascia Vick al cospetto di Mozart. Il Flauto magico del regista inglese vuole ripensare la categoria del popolare, il che oggi lascia spazio – come si può ben capire – a molte questioni piuttosto urticanti. Soprattutto all’interno di uno spettacolo di forte connotazione politica, che offre squarci sull’attualità più problematica con un taglio inevitabilmente ideologico, “veicolato” attraverso una vasta serie di dialoghi in italiano che Vick aggiunge all’originale. Il quale a sua volta viene proposto nella traduzione italiana realizzata verso il 1980 da Fedele D’Amico. Questi dialoghi servono a dare voce a un popolo di derelitti e di esclusi, ammassati in due tendopoli ai lati del palcoscenico ma pronti a salirvi fino a diventare essi stessi protagonisti, a interagire con i personaggi. Si tratta di un centinaio di partecipi ed entusiasti figuranti, scelti da Vick fra i cittadini di Macerata, con presenza in percentuale significativa di immigrati veri e propri.

Quello che succede sulla scena non può quindi avere alcuna connotazione favolistica: il drago contro cui Tamino combatte all’inizio è una ruspa di salviniana memoria, che alla fine del primo atto Sarastro guida orgogliosamente. Del resto, egli è il gran capo delle lobby che opprimono il popolo, il volto solo apparentemente saggio, in realtà ambiguo e menzognero, dei poteri forti. Le tre porte della saggezza iniziatica (con tanti saluti al massone Mozart) sono qui rappresentate in modellino (scene di Stuart Nunn, autore anche dei realistici costumi) dall’Eurotower, con simbolo dell’euro sulla cima, dalla sede della Apple e dalla facciata di San Pietro. Al di qua della trimurti soldi-tecnologia-religione, il mondo “normale” è tenuto a distanza da alte transenne. Non mancano una statua della Madonna imbavagliata e missili nucleari in minaccioso countdown. Il fatto è che il percorso iniziatico finisce per coincidere con un incidente (o un attacco) nucleare, e in sottofinale il popolo accorso in scena cade fulminato (dalle radiazioni?), mentre i rappresentanti delle spregevoli élite si salvano grazie alla loro tute isolanti. Poi Sarastro, in una sorta di miracolosa resipiscenza, nel vedere quanto è accaduto decide di perdonare la Regina della Notte (che Mozart e la sua musica a questo punto hanno già mandato all’inferno) e si unisce a lei, con l’effetto di ridare vita e felicità al popolo, non senza che i simboli dei poteri forti vengano abbattuti. E tanto perché non ci siano equivoci, Tamino provvede personalmente a spezzare il magico flauto che l’ha salvato. Segue scena in stile “A Chorus Line”, con il popolo a proscenio a cantare e danzare scatenato mentre partono i fuochi d’artificio, che all’aperto fanno sempre la loro figura.

Chissà, magari Vick si diverte molto all’idea di spiazzare il pubblico che conosce l’opera massonica di Mozart, per farlo sentire parte della riprovevole élite. Lo conferma il fatto che all’inizio del secondo atto Tamino si lancia nella non facile impresa di far cantare ai presenti qualche verso del coro dei sacerdoti. E i sacerdoti, in questa lettura, sono i cattivi della situazione… Sta di fatto che la faticosa tempistica – pur con virtuosistici movimenti di scena (Ron Howell) – l’insistita retorica “politically correct” dei testi aggiunti, l’evidente voglia di stupire il pubblico e soprattutto di sconcertarlo, di non fargli capire bene cosa sta succedendo, sono lontani dal Graham Vick maestro di regia d’opera al chiuso, magari tagliente e provocatorio, ma spesso illuminante e affascinante. Qui l’esigenza di affermare il popolare-populista del XXI secolo porta a una vera e propria riscrittura della drammaturgia. Ma rappresentare un’opera che racconta, in forma di favola, il valore della saggezza da raggiungere attraverso un percorso iniziatico, rinunciando alla favola, capovolgendo la saggezza e condannando ogni percorso iniziatico è una sfida che rimane in mezzo al guado. E che lascia Mozart sullo sfondo.

Difficile dire quanto l’ingombrante drammaturgia “aggiuntiva” abbia complicato la vita al giovane direttore Daniel Cohen, ma certo solo il registro comico dell’opera, peraltro fondamentale, ha avuto qualche appropriata brillantezza; per il resto, lo stile alto e quello drammatico così variamente elaborati qui dal compositore sono apparsi accennati più che ben delineati, sfrangiati in tempi spesso slentati e in un fraseggio senza particolare respiro dinamico. Né il direttore è riuscito a ottenere dall’Orchestra Regionale delle Marche la profondità e la mutevole sottigliezza di suono che sono necessari a far decollare questo capolavoro. Nella giovane compagnia di canto, in evidenza lo spigliato e ironico Papageno di Guido Loconsolo, da uccellatore trasformato in venditore ambulante di pollo fritto. Appropriato lo stile di Valentina Mastrangelo, una Pamina di nitido e ben condotto lirismo, mentre più generica è parsa la linea di canto di Giovanni Sala nel ruolo di Tamino. Tetiana Zhuravel è stata una Regina della Notte più incline alla coloratura, discretamente condotta, che all’accentuazione drammatica. Fra le voci gravi, Antonio Di Matteo è stato un Sarastro di nobiltà più accennata che interiorizzata, mentre Marco Miglietta e Seung Phil Choi (armigeri) e Marcell Bakonyi (oratore) si sono proposti con discreta tenuta e precisione. Bene le tre Dame di Lucrezia Drei, Eleonora Cilli e Adriana Di Paola, come pure il coro marchigiano “Vincenzo Bellini” istruito da Martino Faggiani.

La sera dopo, Damiano Michieletto non rovescia proprio nulla e non riscrive in alcun modo la drammaturgia dell’Elisir d’amore. Com’è tipico della sua regia, crea una narrazione diversa da quella con cui l’opera è nata. “Attualizza”, come suol dirsi: ovvero fa passare Donizetti attraverso un linguaggio di immagini e di scena che è quello della contemporaneità. In questo caso – non sempre le cose funzionano così lisce – il risultato è straordinario. Il suo Elisir “on the beach”, in chiave decisamente e brillantemente pop non perde un colpo. Perché si ride, si sorride e si sospira proprio come raccontava quel grande “chroniqueur” musicale di Théophile Gautier alla prima parigina. E se allora era la spropositata parrucca indossata da Dulcamara a strappare sghignazzi, questa volta sono i gesti e l’abbigliamento da “tamarro” da spiaggia di questo personaggio eterno. Con Michieletto (complici il geniale scenografo Paolo Fantin e la costumista Silvia Aymonino), Dulcamara arriva in fuoristrada, circondato da un gruppetto di fanciulle fatue e pronte a molto. Spaccia un “Elixir” energizzante simile alle decine la cui pubblicità ci insegue ovunque e se serve tira fuori dalla tasca anche bustine di polverina bianca, che probabilmente vanno oltre la legalità. E infatti, certi poliziotti lo tengono d’occhio.

In quella spiaggia si ride, si scherza, si fanno gavettoni agli amici o ci si fa la doccia dopo aver preso il sole, si pensa e si pratica il sesso con la disinibizione della situazione vacanziera. E il regista veneziano si diverte anche a calcare un po’ la mano, giocando con il kitsch da show televisivo di terz’ordine, con le luci colorate al neon (Alessandro Carletti), con gadget strabilianti come la immensa torta nuziale gonfiabile del secondo atto, luogo di ammiccanti tuffi nella schiuma. È su questa spiaggia che Nemorino, ridotto a ragazzo degli ombrelloni, si strugge d’amore per la sua Adina, che è la proprietaria di un chiosco-bar dove piomba anche il bellimbusto Belcore. E tutto si tiene e si risolve dalla mattina alla mattina del giorno dopo, con la notte utile per accogliere la dolcezza sentimentale che è il “plus” del capolavoro.

Non si perde nulla del meccanismo di teatro musicale costruito quasi duecento anni fa da Felice Romani e Gaetano Donizetti e lo spettacolo non aggiunge nulla. Ma racconta con una brillantezza semplicemente perfetta: un’attualizzazione che sottolinea e motiva, una ricchezza di idee che aggancia lo spettatore, lo incuriosisce e lo rende partecipe. Nessun messaggio oltre quello che si vede. E quello che si vede deriva dalla musica e dal libretto, anche se poi la narrazione s’incarica di rendercelo familiare, vicino.

Data la situazione, non per caso il lato musicale regala una serata di molte delizie. Francesco Lanzillotta, che è anche il direttore musicale del festival maceratese, fa suonare benissimo l’Orchestra regionale delle Marche e cesella un’interpretazione brillante ma non superficiale, concentrata ed elegante. Il cast è di alto livello. Mariangela Sicilia è un’Adina di timbro, fraseggio e agilità seducenti, perfetta in scena e nella linea di canto. Impeccabile anche John Osborn, che disegna un Nemorino “di grazia” eppure non privo di vivacità e sempre del giusto smalto, con ovvio culmine nella Furtiva lagrima, cantata tutta a fior di labbra sul tetto del chiosco (quasi uno sberleffo che sa di contrappasso rispetto al genere della serenata sentimentale) con ammirevole controllo dei fiati e del colore. Un testa a testa nella classifica dei gradassi conducono Alex Esposito, Dulcamara, e Iurii Samoilov, Belcore: entrambi sapienti nella gestione dei mezzi vocali e sempre in ottimo stile, con un punto in più per la navigata duttilità espressiva e scenica di Esposito. Divertito e partecipe il coro “Bellini”, ammiccante e ironica Francesca Benitez nei panni di Giannetta.

Tutti sono stati congratulati dal pubblico festante, che ha unito nell’apprezzamento cantanti, direttore e regista con i suoi collaboratori. Ben altrimenti si erano espressi i presenti la sera prima, specialmente all’apparire a proscenio di Graham Vick: molti applausi, ma anche nutriti e sonori dissensi.

Foto © Foto Tabocchini

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