Opera

Rossini, il trionfo della leggerezza

"L'inganno felice" all'Olimpico di Vicenza per il festival Settimane Musicali: il regista Alberto Triola inquadra la vicenda in un contesto psicoanalitico senza mai perdere di vista la musica e la sua ricchezza; il direttore Giovanni Battista Rigon si conferma rossiniano di vaglia, capace di coniugare brillantezza e profondità. Nella giovane compagnia di canto, assai ben assortita, in particolare evidenza il soprano Eleonora Bellocci, il tenore Patrick Kabongo e il basso Sergio Foresti

Secondo il regista Alberto Triola, L’inganno felice, in scena in questi giorni al teatro Olimpico per le Settimane Musicali, si basa su di un classico elemento psicoanalitico. In sintesi, la protagonista vive (e alla fine supera) un tipico caso di rapporto irrisolto con il mondo maschile. Prospettiva aggiornata per un modello narrativo antico, quello della donna virtuosa ingiustamente perseguitata dal marito, scacciata e mandata a morire, che non solo riesce a salvare la pelle, ma parecchio tempo dopo riesce ad affermare le sue ragioni e a ricongiungersi all’amato nonostante tutto. Nel gennaio 1812, quando questa farsa di Gioachino Rossini segnò al teatro San Moisè il suo primo trionfo, il soggetto era di gran moda. Il librettista Giuseppe Maria Foppa, indefesso confezionatore di atti unici (e non solo) per le scene veneziane, non si peritava di sfruttarlo intensivamente, se è vero che per lo stesso pesarese avrebbe scritto fra l’altro, due anni più tardi, il libretto di Sigismondo, nel quale si racconta qualcosa di molto analogo con in più una deriva davvero psichiatrica, visto che il senso di colpa divora il protagonista fino a condurlo sull’orlo della follia.

Nell’Inganno felice siamo molti lontani da queste inquietudini e non può essere un caso che il primo grande successo di Rossini (ben presto capace di superare i confini italiani) sia stata questa farsa, mentre l’opera scritta due anni dopo abbia avuto destino esattamente opposto: fiasco alla prima e immediato oblio, salvo rare riesumazioni in anni recenti.

Il fatto è che l’agile atto unico scritto dal genio non ancora ventenne è una folgorante riuscita non tanto nel genere serio o tragico – cui il compositore avrebbe dato peraltro, nell’arco del decennio successivo, straordinari capolavori – ma in quello cosiddetto di mezzo carattere: vicenda dolorosa che si risolve in lieto fine, occasione per affiancare forme drammaturgiche e musicali dei generi più vari, dal brillante al sentimentale, dal comico al patetico. Un anticipo rivelatore di maturità, un annuncio di grandezza che l’abile impresario dello spettacolo veneziano, dopo il trionfo, poteva annunciare alla madre del compositore in una celebre lettera: «… Da qui a poch’anni sarà un ornamento dell’Italia e si sentirà che Cimarosa non è morto, ma il suo estro passato in Rossini…»

Triola, dunque, fa di questo atto unico un caso psicanalitico. Ma si tratta di una cornice che non condiziona né la semplice teatralità dell’opera né soprattutto il fascino della sua musica. Perché tutto è proposto con mano leggera, senza insistenza, cercando sempre l’efficacia delle immagini e la scorrevolezza della narrazione. Caso non frequente, la presenza importante di un paio di mimi (nell’intenzione del regista: l’alter-ego della protagonista Isabella e niente meno che l’anima del suo antico marito, il duca Bertrando) non rischia mai di diventare stucchevole controscena permanente e soprattutto non condiziona il rapporto fra quello che si sente e quello che si vede. Merito anche della bravura della danzatrice Clelia Fumanelli, agile e intensa, affiancata da un più manierato Libero Stelluti.

La non semplice “collocazione” nella cornice olimpica di un’operina ambientata in una landa desolata fra il mare e una miniera di sale è risolta dall’architetto vicentino Giuseppe Cosaro, autore delle scene e anche dei costumi con Sara Marcucci, con la saggia misura del conoscitore di lunga data dello spazio teatrale di Palladio e Scamozzi. Pochi segni, il principale dei quali, da un lato, è la barca che ha salvato la vita alla protagonista; una botola sempre aperta a proscenio, due pedane che raggiungono la gradinata, giochi di luce a volte un po’ ingenui ma non di rado efficaci: in questo spettacolo la drammaturgia nasce dal confronto fra i personaggi – e non a caso le pagine più importanti sono alcuni duetti, il terzetto, il concertato finale, mentre anche le Arie, pur importanti, non sono mai avulse dalla necessità teatrale anche se già annunciano certe vertigini virtuosistiche della scrittura rossiniana. E quindi, opera cantata ma anche opera recitata, grazie all’impegno di una compagnia che oltre a possedere interessanti qualità vocali si è mossa con teatrale naturalezza ed efficacia, giusta le direttive impartite da Triola, qui alla sua prima prova registica in Italia dopo numerose esperienze all’estero.

Se Rossini è di casa all’Olimpico lo si deve in larghissima parte al direttore Giovanni Battista Rigon, che qui ha messo a fuoco e affinato negli anni la sua cifra interpretativa di spiccata qualità nel grande repertorio rossiniano come pure in quello meno noto. Alla testa dell’orchestra di Padova e del Veneto, che garantisce qualità e duttilità di suono, Rigon ha riletto L’inganno felice fuori dagli schemi, raggiungendo l’equilibrio attraverso la strada migliore, quella dell’analisi. Ne è sortita un’interpretazione per molti aspetti esemplare, fitta di suggestioni, di scarti psicologici e perfino umorali, fra brillantezza, impulso al comico (qui, il culmine è nel meraviglioso duetto fra il cattivo Batone e il buon Tarabotto), accentuazione drammatica. E su tutto, in sintonia con la regia, una sovrana leggerezza, di quelle che lungi dal rischiare la superficialità portano l’ascoltatore al cuore dell’invenzione rossiniana.

Secondo tradizione di un festival giunto alla ventisettesima edizione e ora animato da nuova energia anche nell’immagine e nella risposta del pubblico (l’Olimpico era al completo), la compagnia di canto era giovane, agguerrita e alquanto interessante. La parte di Isabella è stata sostenuta da Eleonora Bellocci, che ha timbro caldo, fraseggio ricco di sottigliezze, naturalmente sostenuto da un elegante legato, solo qualche tendenza alla forzatura nel sovracuto, più volte cercato senza che fosse davvero necessario. Nei panni del duca il tenore congolese Patrick Kabongo ha fatto sentire notevole e promettente crescita rispetto alla precedente occasione in cui l’avevamo ascoltato, La scuola de’ gelosi di Salieri a Legnago un anno e mezzo fa. Il colore è di buona grana rossiniana, la linea di canto sicura, svettante e ben articolata la coloratura. Punta di diamante delle tre voci gravi è risultato Sergio Foresti, maturo ed efficace nel disegnare la parte di Batone con apprezzabile sensibilità musicale, tenuta in tutte le zone della tessitura, ricchezza timbrica e qualità attoriali di vaglia. Persuasivi comunque sia sul piano vocale che su quello scenico anche il Tarabotto di Daniele Caputo e il perfido Osmondo di Lorenzo Grante.

Per tutti, alla fine, consensi entusiastici e ripetute chiamate a proscenio. L’opera si replica di venerdì (ore 21) e di domenica (ore 18) nei prossimi due fine settimana.

Foto © Alessandro Dalla Pozza

Condividi questo articolo:
Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email