Opera

Martone, “Nozze” in stile decorativo

Al Filarmonico di Verona il capolavoro di Mozart con la firma del regista napoletano. Lo spettacolo, nato nel 2006, punta ad allargare lo spazio della rappresentazione, portando spesso i cantanti oltre la scena, ma finisce per risultare dispersivo e generico. Interessante la direzione, sottilmente analitica, del debuttante Sesto Quatrini. Nella compagnia di canto, in evidenza la Contessa di Francesca Sassu e la Susanna di Ekaterina Bakanova. Positivo anche l'Almaviva di Christian Senn

Da non molti anni entrato nel mondo della regia operistica, nel 2006 Mario Martone andava riflettendo a modo suo – ma con sempre acuminata intelligenza – sul rapporto fra il palcoscenico e il pubblico nel contesto del teatro musicale. A distanza di pochi mesi uno dall’altro, firmava infatti due spettacoli come le mozartiane Nozze di Figaro per il San Carlo di Napoli e Torvaldo e Dorliska di Rossini per il Festival di Pesaro – sempre avvalendosi della collaborazione dello scenografo Sergio Tramonti. In entrambi gli allestimenti, l’elemento saliente consisteva nell’idea di condurre l’azione oltre i limiti della scena, allargandola fino a comprendere nel caso più radicale (Torvaldo) quasi l’intero teatro, fino a rendere il palcoscenico una sorta di portale rovesciato, al di qua del quale (e non al di là), e cioè fra i palchi e le poltrone della platea, tutto avviene. Rivisto a Pesaro proprio la scorsa estate, undici anni dopo il debutto, quel Torvaldo e Dorliska ha confermato di essere un gran bel saggio di “teatro integrale”, nel quale la riflessione sullo spazio scenico è condizione primaria di una riuscita drammaturgica che altrimenti quel Rossini “minore” (ammesso che lo sia) faticherebbe a raggiungere.

Per quanto riguarda Le nozze di Figaro – ora approdate al Filarmonico di Verona in una ripresa che giunge quindi a dodici anni di distanza dal debutto – la scelta del regista napoletano (ripresa da Raffaele Di Florio) è meno radicale rispetto a Rossini, anche perché qui la drammaturgia musicale è una fontana zampillante; ma forse proprio per questa attenuazione, il risultato è meno convincente.

Anche in questo caso si punta a scavalcare l’orchestra, grazie ai praticabili che allungano lo spazio della rappresentazione verso la platea e la raggiungono con un saliscendi di scalette; anche qui, quello che si vede in scena ha più che altro il ruolo di un fondale, con scelte peraltro non particolarmente felici. Per tre quarti dello spettacolo, campeggia al centro una lunga tavolata che quasi mai ha motivo di essere lì, ma certo funziona da riempitivo. Del magico giardino notturno del quarto atto, quando le fila delle “folle journée” si intrecciano vorticosamente fino allo svelamento finale degli inganni e delle illusioni, non c’è traccia in nessun senso. Non c’è giardino e non c’è oscurità: mai abbiamo visto un gioco di luci di così poche sfumature (lighting design di Pasquale Mari, ripreso da Fiammetta Baldiserri) per questo gioiello dentro al gioiello.

Sullo sfondo, le due scalinate e la terrazza in stile rococò che alludono al palazzo del Conte di Almaviva servono più che altro per qualche passaggio di figuranti o di personaggi: una decoratività monumentale che si attenua solo nel finale, quando il palcoscenico torna centro focale della rappresentazione e serve qualche elemento in più per dare il senso dei nascondigli, del labirinto reale e psicologico in cui ci si avvia alla conclusione. E quindi le due scalinate si spostano verso il proscenio e diventano quasi due quinte, un effetto interessante.

Dove Martone centra il bersaglio è nell’attenzione per i personaggi (belli i costumi in stile ‘700 di Ursula Patzak) e quindi per una recitazione realistica, immediata, per movimenti essenziali e gesti lontani dalla stucchevolezza, di modo che la verve di commedia non oscura mai la “verità” sentimentale e umana che è la spina dorsale del capolavoro. Le psicologie di questa umanità protesa alla ricerca della felicità emergono, si notano; aiutano a rendere più denso uno spazio altrimenti decisamente dispersivo, anche se le qualità prettamente teatrali della compagnia sono più di maniera o di mestiere che di profondità autentica.

Fra i protagonisti vocali, si è fatta preferire la parte femminile del cast. Francesca Sassu ha fraseggiato con l’accorata disillusione e il lirismo patetico che si richiede alla grande delusa dell’opera, la Contessa, cui ha prestato un colore vocale di apprezzabile nitidezza. Ekaterina Bakanova è stata una Susanna vivace e ironica, capace di svettare facilmente senza perdere la misura sull’acuto e di disegnare la brillantezza della parte con intima partecipazione. Lara Lagni ha disegnato con efficacia la malizia e l’ingenuità di Barbarina mentre Aya Wakizono ha delineato il ruolo “en travesti” di Cherubino con indubbia eleganza, più efficace nella seconda delle sue Arie, “Voi che sapete” e con qualche freddezza nella prima “Non so più cosa son cosa faccio”, che vive di un intimo turbamento; nell’insieme però la linea di canto è parsa stilisticamente impeccabile e il colore molto interessante. Caricaturale, come dev’essere, la Marcellina di Francesca Paola Geretto.

Fra gli uomini, Christian Senn – il Conte di Almaviva – si è proposto con indubbia eleganza nella dissimulata arroganza della prevaricazione sociale di cui è portatore, offrendo una prova in crescendo di autorevolezza ed efficacia al di là di una certa leggerezza nella zona bassa della tessitura che lo ha visto accomunato con il Figaro di Gabriele Sagona, voce chiara e interpretazione misurata, non sempre incisiva, bene concentrata però nel quarto e conclusivo atto. Il Bartolo dell’esperto Bruno Praticò si è fatto valere più per arte scenica che per pregnanza musicale, a causa di una vocalità che risente del passare del tempo, come pure è stato per Bruno Lazzaretti nel ruolo di Basilio. A posto Dario Giorgelè (Antonio) e Paolo Antognetti (Don Curzio); attento nella misura e nel colore il coro istruito da Vito Lombardi.

Al debutto nelle Nozze e in generale in un’opera di Mozart, il giovane direttore Sesto Quatrini si è reso protagonista di una lettura dalle buone sfumature espressive, agile nei tempi e nelle dinamiche, ben misurata secondo uno sguardo interpretativo storicamente consapevole delle caratteristiche sonore dell’epoca pur senza ambizioni filologiche. Il brillante e il patetico – le due maggiori correnti nel gran mare di questo capolavoro – sono stati messi a confronto con resa drammatica efficace, ma talvolta l’equilibrio della concertazione – nel rapporto fra orchestra e palcoscenico – è sembrato un po’ sbilanciato dalla parte dello strumentale, peraltro risolto dall’orchestra areniana con apprezzabile nitidezza e precisione.

Pubblico folto alla prima e successo senz’ombre, con numerosi applausi a scena aperta e ripetute chiamate alla fine.

Foto © Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

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