A quasi 270 anni dalla sua apparizione nel mondo, la Messa in Si minore resta circondata dal mistero. Perché Bach – uno o due anni prima di morire, fra il 1748 e il 1749 – decise di mettere insieme pezzi vecchi (numerosi) e nuovi (pochi) della sua sterminata produzione vocale-strumentale, per costruire una monumentale composizione suddivisa secondo l’Ordinario della messa in latino? Nonostante un secolo e mezzo di ricerche, di preciso non lo sappiamo. Sul motivo per cui il compositore abbia deciso di completare il Kyrie e il Gloria, inviati nel 1733 al principe elettore di Sassonia per banali scopi di bottega (la richiesta di un titolo onorifico utile a rintuzzare le pretese dei suoi datori di lavoro a Lipsia), realizzando una vastissima “Missa tota”, possiamo soltanto avanzare ipotesi. Quello che constatiamo è che, apparentemente all’improvviso, il genio che aveva scritto le Passioni, centinaia di Cantate (da chiesa e profane), decine di Concerti e tanti pezzi per organo, per clavicembalo, per strumenti vari; l’uomo riconosciuto dai suoi contemporanei come uno dei maggiori musicisti di chiesa e di corte della sua epoca, che trattava alla pari con le teste coronate, alle quali offriva saggi strabilianti della sua immensa “scienza musicale”, diventa un eroe della musica assoluta, senza commissione e senza destinazione, se non se stesso. Il primo nella storia. Non solo non esiste prova di alcuna esecuzione della Messa in Si minore negli anni intorno alla morte del compositore (avvenuta nel 1750) o nel periodo successivo, ma non c’è traccia di specifici incarichi per la sua realizzazione. E del resto, la composizione è così vasta che la sua funzione liturgica è esclusa “ipso facto”, non diversamente da due successivi capolavori sacri dell’Ottocento che a questa Messa debbono molto, almeno “ideologicamente”, la Missa Solemnis di Beethoven e la Petite Messe Solemnelle di Rossini.

Così, l’immensa partitura si è guadagnata un ruolo leggendario fin dai primi anni dell’Ottocento, è diventata il rovello di generazioni di storici e musicologi e contemporaneamente un caposaldo del repertorio concertistico vocale-strumentale, non solo tedesco. Più ancora che per gli enigmatici capolavori speculativi dell’ultimo decennio della sua vita (le Variazioni Goldberg, l’Offerta Musicale, l’Arte della Fuga) è grazie alla Grosse Catolisches Messe (così è descritta nell’inventario delle musiche del figlio Carl Philipp Emanuel, erede della partitura e suo primo divulgatore) che Bach è assurto all’empireo dell’universalità e dell’eccezionalità nel senso tipico dell’estetica romantica. Del resto, per spiegare questo immenso polittico musicale, un mosaico di prodigiosa unità nelle sue vaste differenziazioni, in assenza di motivazioni pratiche che solo documenti ad oggi inesistenti potrebbero comprovare, l’argomentazione più sensata è proprio quella di una sbalorditiva realizzazione del tutto personale. La Messa è un monumento che nasce dalla consapevolezza del proprio genio e che Bach erige a se stesso e affida ai posteri.
In questa prospettiva, assume una connotazione ben diversa la tecnica adottata per la “compilazione”. L’uso intensivo della cosiddetta parodia, ovvero l’impiego di musiche precedentemente composte su un altro testo e in vario modo adattate alle nuove parole, non risponde tanto alla necessità di fare in fretta di fronte a una commissione di cui non si trova traccia. In realtà, la parodia sembra essere funzionale qui, in larga misura, alla intima necessità da parte del compositore di tramandare musiche nate in circostanze diverse, lungo un arco temporale amplissimo (la più antica risale addirittura al 1714, ovvero 35 anni prima). Pagine ritenute di particolare qualità e quindi meritevoli di una conservazione che altrimenti era incerta, visto il rischio di tante composizioni pratiche: andare perdute. Un Bach che perpetua se stesso e la sua arte, insomma. Vista la storia esecutiva della Messa in Si minore, il suo obiettivo si può dire raggiunto.
A cinque anni di distanza dall’ultima volta, sempre per iniziativa della Società del Quartetto, la Messa in Si minore è tornata al teatro Comunale di Vicenza, nei giorni della Settimana Santa, per affermare la sua affascinante profondità spirituale che va oltre la teologia e la liturgia e prescinde dalle particolarità interpretative e filologiche. Aveva funzionato bene nel marzo 2012, con i giovani tedeschi del Bach Ensemble di Stoccarda, diretti dall’esperienza di Helmuth Rilling in un’esecuzione senza strumenti d’epoca. Ha funzionato altrettanto bene, anzi di più, nella prova del coro e dell’orchestra barocca “Andrea Palladio”, fondati alla fine degli anni ’80 dall’impegnatissimo musicista vicentino Enrico Zanovello, che si è seduto all’organo positivo lasciando la direzione a un maestro della prassi esecutiva come Andrea Marcon. Il gruppo con strumenti d’epoca ha corrisposto con efficacia notevole, spesso impeccabile, alle richieste della scrittura bachiana, raramente così ricca e varia. In grandissimo spolvero le tre trombe, magistralmente suonate dagli specialisti di area germanica Martin Patscheider, Andreas Lackner e Thomas Steinbruckner, ma in perfetto stile e ottima tecnica anche i flauti traversi (benissimo Alberto Crivelletto nell’aria sul “Benedictus”), gli oboi e gli oboi d’amore, i fagotti. Si è difeso strenuamente Dileno Baldin al corno da caccia, correndo non pochi rischi sulla precisione e l’intonazione. Del resto, il suo unico ma decisivo intervento, nell’Aria del basso “Quoniam tu solus sanctus” dal Gloria, è di una difficoltà siderale. Sicuramente Bach pensava al virtuoso di corno che suonava nell’orchestra di corte a Dresda, quando scrisse questa pagina così poco “religiosa”. Nel 1731, due anni prima di inviare al duca di Sassonia le prime due parti della Messa, il Kyrie e il Gloria (che contiene il “Quoniam”) aveva ascoltato al teatro ducale una nuova opera del suo collega e amico Johann Adolph Hasse, Cleofide, che al terzo atto presenta un’Aria con corno obbligato, “Cervo al bosco” che è l’immediato antecedente della invenzione bachiana (per chi volesse confrontare, qui Hasse e qui Bach).
Con l’apporto sempre duttile e non di rado brillante degli archi – al netto di qualche minore incertezza all’inizio – Andrea Marcon ha disegnato una lettura della Messa in Si minore di grande freschezza comunicativa, con tempi spigliati anche nelle pagine polifoniche più dense, colori vivaci, attenzione ai capitoli più riflessivi e drammatici ma soprattutto alla trascinante eleganza esemplata sulla stilizzazione delle danze in voga all’epoca (Réjouissance, Giga, Polonese…) Ne è uscito un Bach lontano da esagerati e fuorvianti rigori liturgici, acceso nello spirito concertante che anima l’intera Messa. Ed esaltato dalla impeccabile precisione del coro Andrea Palladio, duttile ed omogeneo, di colore sempre comunicativo, di accattivante tensione espressiva nelle Fughe che innervano la partitura, fra stile antico alla Palestrina e “moderna” ricchezza ritmica e melodica.
Nel gruppo dei solisti, bene in particolare il contralto Francesca Ascioti, che commisura un colore di velluto scuro con una declamazione sempre sorvegliata, positivo per agilità ed efficacia della linea di canto il basso vicentino Alberto Spadarotto. Concentrati i soprani Alice Borciani e Francesca Lombardi Mazzulli, non particolarmente coinvolgente né per il timbro né per il fraseggio il tenore Baltazar Zuñiga.
Teatro al gran completo, pubblico avvinto e alla fine quasi commosso nel lunghissimo applausi che ha salutato tutti i protagonisti della serata.
Foto © Angelo Nicoletti