Opera

Una “Tosca” che esalta l’orchestra

Al Filarmonico di Verona interessante smalto sinfonico nella direzione di Antonino Fogliani, ben supportato dalla formazione areniana. Compagnia di canto con l'esperta Fiorenza Cedolins in evidenza. Acerbo il tenore turco Murat Kaharan come Cavaradossi, misurato lo Scarpia di Giovanni Leoni. La regia di Giovanni Agostinucci (autore anche di scene e costumi) depurata delle esasperazioni un po' "pulp" contestate alla prima uscita dello spettacolo, nel lontano 2004

Nel febbraio del 2004, la prima rappresentazione di una nuova produzione di Tosca a Verona ebbe accoglienze piuttosto insolite per le consuetudini del pubblico del teatro Filarmonico, in genere cauto nei dissensi. Come riportarono le cronache, quando il regista (e scenografo-costumista) Giovanni Agostinucci si presentò a proscenio alla fine dell’opera, partirono decisi ululati di riprovazione da parte di una platea che già nel corso della serata aveva reagito in qualche momento con chiara insofferenza per le scelte del responsabile dello spettacolo. Non era piaciuta la decisa accentuazione in chiave “pulp” del capolavoro di Puccini, con un secondo atto nel quale il perverso Scarpia, feroce capo della polizia, diventava un torturatore in proprio e un seduttore violentatore fin dall’inizio, sempre pronto a mettere le mani addosso a Floria Tosca, ben prima del “Finalmente mia!” con cui esulta per avere raggiunto il suo scopo, salvo finire di lì a poco con un coltello piantato nel petto. Non erano piaciute certe scelte d’effetto: quello Scarpia già morto che all’improvviso ghermisce Tosca, quasi fosse uno zombie, quella fucilazione di Cavaradossi fuori scena, con rientro carponi del giustiziato per l’indispensabile constatazione della sua fine da parte di Tosca. E proprio alla fine, aveva suscitato perplessità anche il mancato salto nel vuoto della protagonista dagli spalti di Castel Sant’Angelo, con la scelta, invece, di farla lanciare sulle baionette dei soldati.

Tredici anni più tardi, la ripresa di questo spettacolo nella stagione al Filarmonico non ha avuto analoghe conseguenze: la prima è filata via liscia, alla fine il regista non è stato contestato, anche se non è stato per la verità particolarmente festeggiato. Il tempo è galantuomo? Evidentemente sì, soprattutto se è aiutato ad esserlo da qualche aggiustamento. Lo Scarpia-zombie non c’è più, ad esempio, né lo si vede – come pure accadeva nell’originale – prendere a calci gli sbirri al suo comando, anche se per tutto il secondo atto non cessa di brancicare la sconvolta Tosca, ben oltre il piano della violenza psicologica. Restano sia la fucilazione fuori scena (ma questa volta ci pensano due soldati a portare a proscenio Cavaradossi morto) sia il mancato salto nel vuoto. Oltre i dettagli (che però sono cruciali), la Tosca di Agostinucci resta uno spettacolo attento più che altro all’esteriorità del dramma, tutta sangue e violenza, colpi di scena e amori disperati e molto meno ai terribili, tragici meccanismi piscologici che lo attraversano e che sono ciò che più interessa a Giacomo Puccini. La scenografia è essenziale ma efficace nel costruire con pochi mezzi le cornici degli eventi – Sant’Andrea della Valle, palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo. Ed è apprezzabile il gusto dei costumi, l’elemento che più colloca lo spettacolo nell’epoca storica effettiva – Roma primissimo Ottocento.

A esaltare le sfumature e i dettagli ci pensa dal podio Antonino Fogliani, che trova ottima sponda musicale nell’ispirata orchestra dell’Arena, in ottima forma. La sua Tosca è di grande risalto sinfonico, con bella evidenza per le pagine solo strumentali che la innervano e ne costituiscono parte drammaturgica importante, ma soprattutto con una lucidità analitica che mette in evidenza come non sempre avviene la ragnatela tematica che avvolge i personaggi e le situazioni, via pucciniana alla wagneriana tecnica dei leit-motive, dei motivi ricorrenti. Sontuoso il suono, peraltro lavorato con molta attenzione alle sfumature espressive dentro alle situazioni drammatiche, e quindi anche con trasparenze quasi cameristiche, oltre alla dovuta enfasi sentimentale.

La compagnia di canto ha visto Fiorenza Cedolins tornare al Filarmonico nel ruolo del titolo. Il soprano friulano ha presenza scenica importante e molto nella parte, con qualità attoriali che sono fondamentali in un’opera come questa. La linea di canto è sapientemente modellata e se anche nella zona acuta della tessitura l’emissione risulta talvolta tesa e un po’ stimbrata, musicalmente la riuscita è piena e convincente. L’interpretazione è di forte impatto drammatico: una donna innamorata che anche quando sembra sul punto di soccombere non cessa di affermare una personalità forte e orgogliosa. Al suo fianco, Giovanni Meoni è stato uno Scarpia poco propenso alla caricatura, altero quanto è spietato. Musicalmente, il tutto si è risolto in una prova equilibrata, vocalmente rilevante soprattutto nella duttilità del canto di conversazione, ma non senza la necessaria tenuta nelle perorazioni. Il tenore turco Murat Karahan ha fatto capire di avere notevoli mezzi vocali. Il suo “Vittoria!” nel secondo atto è stato una prova di forza e di controllo, ma molto altro serve al personaggio, oltre allo squillo. Lo si è notato nel punto cruciale della parte, “E lucevan le stelle”: attenzione e buona precisione, ma colore non seducente, fraseggio generico, lontano dalla tenera sensualità e dal rimpianto di questa pagina celeberrima. A posto la pattuglia dei comprimari, con il sagrestano di Mikheril Kiria preciso e giustamente mai sopra le righe con inutili esagerazioni comiche, e gli sbirri Spoletta e Sciarrone caratterizzati con grande efficacia da Antonello Ceron e Andrea Cortese. Positiva la prova dei cori: quello dell’Arena istruito da Vito Lombardi e quello di voci bianche “A.d’A.MUS” diretto da Marco Tonini.

Foto © Ennevifoto

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