Opera

Quando Cilea studiava da operista

La rarissima "Gina" in scena al Malibran di Venezia: è il saggio di fine corso (1889) del compositore calabrese, studente al conservatorio di Napoli. Già evidente la vocazione alla ricchezza melodica, pur nell'inattualità di un'opera del genere semiserio. Spettacolo tradizionale e di non grandi idee, ottima compagnia di canto con Alessandro Scotto di Luzio e Arianna Vendittelli in evidenza

Serata “studentesca” al Malibran. Si dà Gina, saggio operistico di fine corso di composizione firmato da un giovane Francesco Cilea (1889) e l’allestimento è realizzato dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti, scuola di scenografia. Una bella combinazione all’interno di un progetto che da tempo la Fenice va continuando nel suo “secondo teatro” e che mette in moto una serie di collaborazioni veneziane sicuramente interessanti e fruttuose.

Cilea viene in genere iscritto alla scuola operistica del Verismo, ma è molto lontano da Mascagni e da Leoncavallo, o almeno dai loro lavori più noti, Cavalleria rusticana e Pagliacci. La sua primissima prova melodrammatica, Gina appunto, non ne mostra soltanto le indubitabili nascenti e promettenti qualità di melodista a tutto tondo, ma chiarisce anche e soprattutto come all’interno di uno dei più autorevoli conservatori italiani ed europei, quello napoletano di San Pietro a Maiella, fosse impossibile diventare compositori d’opera senza tenere lo sguardo rivolto soprattutto al passato. Ovvero a una tradizione che era stata fulgida e ancora continuava, ma era ormai sempre più estranea ai reali processi creativi del “mercato” operistico e alle attese del suo vastissimo pubblico. Il periodo di composizione, infatti, è in pratica quello in cui venivano alla luce i due citati caposaldi del Verismo, che sono rispettivamente del 1890 e del 1892. Gina appartiene invece all’ormai vetusto genere semiserio, di mezzo carattere. Una tipologia nella quale gli elementi drammatici convivono con quelli di commedia e sembrano progressivamente prevalere, fino a un lieto fine liberatorio e salvifico, in genere rocambolesco, inatteso, sorprendente. Non a caso in Francia (e francese è anche la commedia del 1835 da cui Enrico Golisciani trasse il suo libretto) spettacoli del genere venivano chiamati “pièces à sauvetage”.

Cilea muove dunque da Rossini (basti pensare alla Gazza ladra) e da un’ampia tradizione melodrammatica italiana ancora fervida alla metà del secolo e il suo principale elemento di originalità, se proprio se ne vuole rintracciare uno, consiste nell’efficacia con cui accende la temperatura lirica e sentimentale dell’esile trama (“melodramma idillico” è definita l’opera), ambientata in Francia all’inizio dell’Ottocento. I timori legati alla partenza per la guerra, prima, e poi l’angoscia nell’attesa del ritorno, da parte delle figure femminili rimaste a casa, sono più che altro una cornice, che non trova riscontro musicale di analoga efficacia. Anche la soluzione dell’intreccio, con doppio lieto fine nuziale sia per Gina, che impalma lo sconosciuto a cui aveva promesso fedeltà se avesse sollevato il fratello Uberto dalla coscrizione obbligatoria, sia per Lilla, che può finalmente coronare il suo sogno d’amore con lo stesso Uberto, conferma l’inclinazione stilistica di Cilea. Il sapore musicale è più che altro nell’espressività lirica, molto meno nei colpi di scena che precedono lo scioglimento.

Di assoluta rarità sulle scene (dopo le rappresentazioni napoletane del 1889, l’unica ripresa moderna risale al 2000-2001 fra Cosenza e Roma), Gina è stata proposta in un allestimento di stampo tradizionale firmato da Bepi Morassi per la regia, Francesco Cocco per le scene e Francesca Maniscalchi per i costumi. Grande scialo di tricolori francesi e molta maniera ma idee ridotte allo stretto necessario, e forse meno, nei movimenti, nelle controscene, nelle sottolineature brillanti, con l’unico “colpo di teatro” di una sorta di invasione della platea da parte delle truppe reduci dal fronte, che peraltro non è sembrata per nulla necessaria

Ottimo il cast vocale. Armando Gabba è stato un Uberto di buona presenza vocale e scenica, Arianna Vendittelli una Gina di fraseggio duttile ed elegante e di bel colore, così come Valeria Giradello, che ha dato sostanza alla parte contraltile di Lilla con musicalità e stile appropriati. Molto bene lo svettante Giulio del tenore Alessandro Scotto di Luzio, abile nell’evitare esasperazioni veristiche a una parte molto appassionata, meno incisivo il sergente Flamberge di Claudio Levantino. La parte è caricaturale e a tratti grottesca e si sarebbe giovata di una voce più “presente” e meglio timbrata. A posto il coro istruito da Ulisse Trabacchin. Dal podio dell’orchestra della Fenice, Francesco Lanzillotta ha seguito le idee del giovane Cilea con precisione e buona adesione, delineando un fraseggio mobile e ricco di colore.

Pubblico folto, applausi molto cordiali per tutti, compresi gli allievi dell’Accademia che hanno realizzato scene e costumi, alla fine tutti chiamati sul palco.

Foto © Michele Crosera

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