Concerti

Il quartetto che va oltre la tradizione

A Vicenza il Cremona suona in piedi (tranne naturalmente il violoncello) ma non perde nulla della sua grande qualità e della sensibilità interpretativa che ne fa una delle formazioni cameristiche di punta nel panorama internazionale. Per la Società del Quartetto, al teatro Comunale serata tutta dedicata a Saint-Saëns, con la lucida e preziosa collaborazione del pianista Andrea Lucchesini

Il violoncello, quello non c’è modo. Lo si deve per forza suonare da seduti, anche se intorno tutti gli altri sono in piedi. Woody Allen ci ha costruito, tanti anni fa, una delle gag più esilaranti di Prendi i soldi e scappa. In quel film degli esordi, il protagonista (cioè lo stesso regista), figlio di una famiglia della piccola borghesia ebrea di New York, prima di abbracciare con esiti comicamente disastrosi la via del crimine prova a fare qualcosa di onesto e si dedica anche alla musica, imparando appunto il violoncello. Non ottiene grandi risultati, il massimo che gli riesce è di entrare in una banda: ed eccolo affannarsi per strada, fra i colleghi che marciano impugnando clarinetti e bombardini, tenendo con una mano il violoncello e con l’altra una seggiola. Pochi passi, si siede, suona due note e poi subito via di corsa, per non farsi distanziare, prima di sedersi ancora e ancora, ogni volta suonando con crescente affanno altre poche note…

Il violoncello deve stare per forza seduto. E seduti in genere suonano – secondo una tradizione che dura da secoli – anche i suoi compagni nel quartetto d’archi, la formazione più raffinata e rarefatta, profonda e sublime della musica da camera. In quattro a semicerchio, ciascuno sulla sua seggiolina e con il leggio davanti. Tanto è vero che quelle quattro sedie, anche vuote, su un palcoscenico deserto, sono l’icona stessa del camerismo nella sua espressione più alta.

Non più tardi di quattro anni fa, nel marzo 2013, il Quartetto di Cremona così si era presentato al pubblico del Teatro Comunale di Vicenza: tutti seduti nel classico semicerchio, abito scuro e papillon nero sulle camicie bianche. Bravissimi e serissimi. Forse “seriosi”, beethovenianamente parlando (così il musicista aveva definito il terzo movimento di uno dei suoi più bei quartetti, quello op. 95: “Allegro assai vivace ma serioso”). Cioè molto compresi, ma anche pronti allo scarto d’espressione, di atmosfera, di colore sonoro.

E infatti, per il loro recente ritorno a Vicenza – ospite sempre la Società del Quartetto – ecco Cristiano Gualco e Paolo Andreoli, Simone Gramaglia e Giovanni Scaglione sparigliare e rompere con la tradizione. Non è questione di look, beninteso: oggi, sempre più artisti si presentano scamiciati come loro. E poi, la giovane età ben consente questa informalità. Ma per quanto frughiamo nella memoria, non riusciamo a ricordare di avere mai visto un quartetto d’archi suonare in piedi. Con la ovvia eccezione del violoncellista. Il quale peraltro ha richiesto una pedana, per alzare la sua seggiola di una ventina di centimetri dal palcoscenico. Il che fa capire che il piano sul quale si trova ogni strumento, in una sofisticata realtà polifonica come il quartetto, ha pure la sua importanza.

Così in piedi, i due violini e la viola sembrano affermare un ruolo solistico, ma ovviamente così non può essere e difatti non è. Semmai, viene da pensare che ci sia una motivazione legata al suono e perfino all’acustica (che come si sa al Comunale è tutt’altro che agevole). In ogni caso, il risultato rimane impeccabile e seducente, così come nella serata di quattro anni fa, dedicata a Beethoven. Questa volta l’obiettivo era puntato su Camille Saint-Saëns, epitome di tutto quel che c’è di più francese nella musica dell’Ottocento (peraltro condotto fino agli anni Venti del secolo scorso, vista la longevità di quest’autore): eleganza sofisticata, aspirazione classicistica venata di un romanticismo screziato, multiforme, non privo di echi wagneriani; retorica alta e tornita, invenzioni melodiche rapinose e mai del tutto libere dalla maniera; chiarezza, ordine formale.

La serata ha visto come decisivo complice il pianista Andrea Lucchesini, che ha aperto il sipario con una rivisitazione pianistica dell’opera Thaïs di Massenet, in cui Saint-Saëns segue la traccia formale e virtuosistica di tante “parafrasi” di Liszt senza raggiungerne la febbrile disarticolazione variatistica e si è poi unito ai quattro del Cremona nel conclusivo Quintetto con pianoforte op. 14. È questa un’opera dei vent’anni del musicista francese, ambiziosa e sussiegosa, molto orientata a mettere in primo piano la parte pianistica. E come per contraddire questa evidenza musicale, Lucchesini è finito quasi nascosto – ma non meno elegante nel fraseggio – dietro ai due violini e alla viola in piedi, che dialogavano con immutabile precisione ed efficacia sia fra loro che con il violoncello e il pianoforte.

Il clou si è avuto al centro del concerto, con il Quartetto op. 112, il primo dei due che Saint-Saëns ha pubblicato (nel 1899). È una pagina di notevole interesse, nella quale l’impeccabile artigianato trova accenti interiorizzati di grande efficacia nel “Molto Adagio” che costituisce il terzo movimento e grande efficacia ritmica e coloristica sia nello Scherzo che nel Finale. I quattro del Cremona l’hanno cesellato con una partecipazione stilistica ammirevole per controllo del suono, equilibrio nel dialogo, risalto delle singole parti e la tipica ricchezza di colore che deriva dal magistero degli esecutori con il “plus” di strumenti storici (tutti settecenteschi) di magnifica efficacia.

Teatro discretamente affollato, molti applausi e chiamate insistenti fino al bis con lo Scherzo dal Quintetto con pianoforte di Schumann.

Foto © Angelo Nicoletti

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