Concerti

Il fascino del suono ungherese

Il quartetto Kelemen convince pienamente a Vicenza in un denso programma con Beethoven, Bartók e Cajkovskij. La qualità del colore mai disgiunta da un raffinato equilibrio e da un pensiero interpretativo profondo e ricco, a sua volta sostenuto da una tecnica di straordinaria fluidità e precisione

Il quartetto d’archi ha in Ungheria una delle sue patrie d’elezione. Solo per fare un paio di esempi, si possono citare il quartetto di Budapest e il Végh, protagonisti della storia delle interpretazioni musicali lungo quasi tutto il XX secolo. Il mondo concertistico è cambiato radicalmente e non è facile fare previsioni, ma un altro quartetto magiaro, riunitosi sei anni fa e approdato per la prima volta a Vicenza nei giorni scorsi, è sembrato il degno erede di quelle celebri formazioni. Si chiama Kelemen, dal nome del suo leader, e ha suonato nella sala grande del Teatro Comunale di Vicenza per la Società del Quartetto. Lo stesso antico sodalizio musicale che in epoche lontane aveva già ospitato i suoi illustri predecessori.

Il programma della serata era corposo, denso, alto: una sfida esecutiva molteplice, che ha preso le mosse dal Beethoven del quartetto op. 59 no. 1, il primo dei tre dedicati al conte Razumovsky, per toccare subito dopo l’arte aspra e avvincente di Bela Bartók, con il terzo dei suoi sei quartetti, un condensato di sapienza costruttiva dentro a una forma scabra ed essenziale. Conclusione con il maestoso – almeno per dimensioni – quartetto op. 30 di Cajkovskij, che non è ai primi posti nel repertorio cameristico forse perché nei suoi quasi 40 minuti alterna poesia assoluta ed esteriorità, invenzioni rapinose e banalità, straordinaria padronanza formale anche nel dialogo a quattro voci “astratte” di questo magnifico genere e tentazioni concertanti.

Non è difficile immaginare che l’autore russo avesse bene a mente, 70 anni dopo, quasi da un capo all’altro quasi del XIX secolo (la sua composizione è del 1875) l’importanza del magistero beethoveniano in quest’ambito. L’op. 59 n. 1 ne è uno dei gioielli più brillanti, per la straordinaria capacità di fondere il colto e il popolare, il raffinato e il comunicativo, in un gioco profondissimo di rapporto fra le quattro parti. C’è una immediatezza melodica, in questo quartetto, che è merce rara per Beethoven, ma c’è anche una ricchezza di soluzioni all’interno della polifonia fra i quattro archi che conduce nei territori meno esplorati e più affascinanti della scienza musicale.

La stessa che Bartók coltivò nella prima metà del Novecento, non a caso facendo dei suoi quartetti l’ideale continuazione di quelli di Beethoven, specialmente degli ultimi, così visionari e astratti. Su questo piano si pone in particolare il quartetto n. 3 del musicista ungherese (1927), di aforistica drammaticità, capace di parlare una lingua “assoluta” che rielabora i valori espressivi tradizionali (melodia, ritmo, contrappunto) quasi in un “flusso di coscienza” dalla fortissima tensione espressiva.

Il quartetto composto da Barnabás Kelemen, primo violino, Katalin Kokas, secondo violino (ma viola in Cajkovskij, con uno scambio di ruoli tutt’altro che abituale), Gabor Homoki, viola (violino nel brano dell’autore russo) e László Fenyö, utilizza quasi tutti strumenti di alto livello: Kelemen imbraccia un Guarnieri del Gesù di metà Settecento, Kokas e Fenyö utlizzano preziosi esemplari di fine Seicento. Questi archi storici hanno un ruolo di primo piano nella qualità e nel fascino del suono della formazione, che è rotondo, morbido, capace di sfumature dorate ma anche di spunti più taglienti senza tuttavia perdere mai l’ampiezza e la ricchezza degli armonici. Ma conta molto anche la tecnica, e quella dei quattro ungheresi è impeccabile, “facile” e precisa, scorrevole e limpida. E conta la capacità tutta individuale di plasmare il suono per renderlo “strumento” di stile, di approccio interpretativo, della capacità di comunicare musica senza freddezza, con intimo convincimento. Insieme alla perfetta fusione, alla elasticità eloquente del dialogo fra le parti, i quattro del Kelemen hanno dimostrato proprio questo: un pensiero profondo sulla “rivoluzione” di Beethoven, illuminata anche nel suo avere radici profonde nel terreno della tradizione; uno sguardo partecipe e magnificamente interiorizzato sulla drammaticità di Bartók; un calore partecipe, appassionato senza mai essere di maniera, sulle elucubrazioni di Cajkovskij.

A suggello di una grande serata, corposo bis nel nome di Schubert, con il tempestoso “Movimento di quartetto” in do minore. In tutto, due ore abbondanti, in controtendenza rispetto ai sempre più ridotti programmi odierni, che il pubblico si è “bevuto” esprimendo durante la serata e alla fine consensi vivissimi. Peccato solo che non ci fosse il tutto esaurito.

Foto © Angelo Nicoletti

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