Opera

L’alluvione si fa dramma per musica

A cinquant'anni dal drammatico evento che colpì duramente Venezia, trionfa "Aquagranda", l'opera di Filippo Perocco con regia di Damiano Michieletto commissionata dalla Fenice: un segno di vitalità per la lirica mentre il sistema italiano vacilla. Spettacolo avvincente, musica di apprezzabile intensità e forza drammatica. Ottimi interpreti vocali, con il soprano Giulia Bolcato in evidenza

Il racconto dell’alluvione del 1966 a Venezia, alla Fenice diventa un’opera, Aquagranda. Successo incontrastato, applausi lunghissimi. Il sovrintendente Cristiano Chiarot vince la sua scommessa, che poi è quella della normalità, semplicemente: un teatro lirico si occupa di produrre e realizzare il melodramma, anche di commissionarne di nuovi, perfino per l’inaugurazione della stagione, come in questo caso. Quest’affermazione di vitalità arriva mentre il settore passa un bruttissimo momento: in Campo San Fantin manifestazione di protesta, meglio sarebbe dire di allarme, dei dipendenti di tutte le Fondazioni italiane, la sera dell’inaugurazione; lungo, dettagliato e ugualmente applaudito intervento di un rappresentante dei dipendenti prima che si levi il sipario, ad ogni replica. Dopo la delega al governo per attuare le indicazioni contenute nell’articolo 24 della legge n. 160 del 7 agosto scorso, il timore è che il sistema della lirica in Italia, da decenni nell’occhio del ciclone per la sua cronica difficoltà a far quadrare i conti, abbia i mesi contati. Già l’estate prossima potremmo trovarci con le quattordici Fondazioni – destinatarie dei contributi statali – ridotte a quattro-cinque: tutte le altre degradate a teatri operistici non beneficiati dai pubblici quattrini. Ad ora, secondo quanto viene scandito dal palcoscenico veneziano, più di 150 persone hanno perso il posto nel giro di pochi mesi.

Ma se una parte significativa dei teatri d’opera è moribonda di suo, e se la prospettiva è che qualcuno a Roma presto stacchi la spina anche a chi magari non è così disperato, l’opera è viva, e l’evento veneziano lo dimostra, acquistando in questo panorama desolato il valore di un simbolo. Certo, Aquagranda è un progetto molto particolare, legato alla storia veneziana e ad alto tasso di “identità locale” sia nei presupposti che nella realizzazione, legato com’è a un gruppo di lavoro ugualmente ad alto livello di venezianità o venetità. Ma Chiarot ha vinto la sua scommessa anche perché è riuscito ad andare oltre il pur lodevole riscatto di una memoria locale da sempre compressa dentro altri eventi molto più noti, come la contemporanea alluvione di Firenze. È cioè riuscito a far sì che questa produzione abbia comunque una valenza “universale” proprio sul piano musicale e dunque culturale: qui si tratta di un’opera contemporanea che dimostra come questo genere abbia ancora molto da dire.

Aquagranda racconta l’arrivo della disastrosa marea, che mise in ginocchio Venezia il 4 novembre 1966, dall’avamposto, vicino e remoto, dell’isola di Pellestrina. Alcuni suoi abitanti ne sono i protagonisti e sono persone reali, tuttora viventi, come Ernesto Ballarin, pescatore con la passione della lirica, uno dei più fedeli abbonati della Fenice, secondo la testimonianza del sovrintendente. Il punto di partenza è Il romanzo dell’alluvione del giornalista Roberto Bianchin, che insieme a Luigi Cerantola è anche l’autore di un libretto che alterna la parola poetica, evocativa, allitterante e sintomatica alla narrazione schietta, spesso in dialetto, drammatica e aspra. Pungente e spigolosa è anche la partitura di Filippo Perocco, musicista proveniente dalla terraferma veneziana più vicina alla Serenissima. Talvolta considerato in passato un post-weberniano per la sua tendenza a una musica aforistica ed essenziale, qui si concede un’eloquenza multiforme, alla quale si può forse rimproverare di voler inseguire troppi fantasmi stilistici, da Webern in poi, ma che costruisce in maniera esemplare la tensione della notte di tregenda in cui l’acqua sommerge tutto prima di ritirarsi e lasciare spazio alla speranza. Ciò avviene con una varietà di registri davvero accattivante, fra i madrigalismi affioranti nella scrittura vocale insieme a lacerti di puro belcanto e le tensioni di una strumentazione massiccia, quasi espressionistica. Senza rinunciare ad apporti elettronici “live”. E offrendo alcuni cori di seducente intensità, insieme declamatori e polifonici, in una sofisticatezza dal sapore antico.

Ne asseconda umori e sensazioni la stella della regia operistica internazionale, Damiano Michieletto, veneziano di Scorzè, che non ha qui bisogno di attualizzare nulla (secondo il suo controverso marchio di fabbrica), perché quest’opera, anche se parla di 50 anni fa, è attualità culturale pura. Ne esce uno spettacolo affascinante, che ti prende immediatamente e non ti lascia più. Decisiva la scenografia tecnologica di Paolo Fantin; pertinenti i costumi di Carla Teti. Sul palco domina l’acqua, nel senso materiale del termine. La parete di vetro che campeggia in fondo alla scena, e che funge anche da schermo per straordinari video e angoscianti montaggi fotografici dalle cronache di allora, è anche il contenitore del liquido elemento continuamente evocato dai personaggi: dalla platea vedi l’acqua che sale dietro al vetro, vedi le onde diventare distruttrici e scaricarsi letteralmente su chi sta sotto, in una pioggia devastante. Voleva l’acqua in platea, Michieletto, e non gliel’hanno lasciato fare. Ma di acqua ce n’è tantissima in scena, protagonista assoluta anche con il suo scroscio, invadente e sempre presente: l’elemento fondativo di una civiltà e di una cultura, distruttivo e creativo insieme.

La cronaca dice di un’esecuzione musicale guidata con perizia e passione da Marco Angius, cui l’orchestra della Fenice ha risposto con grande efficacia. Di una presenza immanente e magistrale del coro istruito da Claudio Marino Moretti, piazzato da Michieletto su due contrafforti di legno ai lati della scena come in una grande sacra rappresentazione. Di una compagnia di canto scelta benissimo e capace di rispondere a tutte le sollecitazioni di Perocco senza mai perdere la qualità del colore e la tenuta del fraseggio. Fra tutti, vanno citati il basso profondo Andrea Mastroni, Fortunato, il mezzosoprano Silvia Regazzo, Leda, e specialmente lo straordinario soprano vicentino Giulia Bolcato, 26 anni, trionfatrice della serata nella parte di Lilli, cui il compositore impone un virtuosismo e una tenuta in sovracuto risolti con una precisione e una forza davvero straordinari. Bene tutti gli altri, ovvero Mirko Guadagnini (Ernesto), Vincenzo Nizzardo (Nane), William Corrò (Luciano) e Marcello Nardis (Cester).

Foto: © Michele Crosera

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