Concerti

Gidon Kremer, il violino anti-Putin

Al teatro Ristori di Verona la prima italiana di "Russia: Faces and Masks", con la Kremerata Baltica. Una rivisitazione dei "Quadri da un'esposizione" di Musorgskij in cui le immagini sono quelle contemporanee di Maxim Kantor, aspro "racconto" della sofferenza del popolo sotto una dittatura

Un grande violinista lancia il suo “j’accuse” contro il regime di Putin, rivisitando a modo suo uno dei capolavori della musica russa del secondo Ottocento. Il Teatro Ristori del nuovo corso, affidato dalla Fondazione Cariverona alla direzione artistica di Alberto Martini, ha inaugurato così la sua stagione: con una serata molto particolare, di musica “mediata” fra trascrizioni e suggestioni legate alle immagini, secondo un’attualizzazione di taglio decisamente politico. Comune denominatore, l’altissimo livello esecutivo, del resto semplicemente ovvio se sul palco salgono il violinista lettone Gidon Kremer e la sua formazione cameristica, ormai prossima all’anniversario del ventennale, la Kremerata Baltica. Il cuore del programma era costituito da una rivisitazione della celebre suite pianistica di Modest Musorgskij, Quadri da un’esposizione, più nota probabilmente nella trascrizione per orchestra che ne fece Maurice Ravel, grandiosa festa di colori strumentali. A Verona se ne è sentita una versione per piccola orchestra d’archi e percussioni e la festa dei colori si è trasferita sullo schermo alle spalle degli esecutori, dove in realtà è subito diventata un incubo.

L’idea alla base del progetto è infatti quella di sostituire lo spunto originale del compositore, i quadri del pittore suo amico Viktor Hartmann, con disegni, dipinti e video realizzati dall’artista russo contemporaneo Maxim Kantor (è nato nel 1957). Il suo immaginario si coagula in uno stile che sembra partire dal grottesco caricaturale a forte connotazione di critica sociale di Grosz per arrivare a una sorta di pop alla russa, nervoso e in certo modo debitore del segno di Basquiat, ma con una notazione favolistica molto evidente anche se per nulla tranquillizzante. Disegni, dipinti, animazioni e video installazioni sono fitti di oggetti degradati, di sangue e di violenza, di masse di gente disperata, schiere di derelitti spesso deformi, oppressi da un potere che ha l’aspetto di uomini-lupo o uomini corvo. E la conclusione delle immagini porta molto lontano dalla trionfale descrizione di una monumentale porta di Kiev, come nella musica di Musorgskij, puntando invece su una mortifera torre di Babele.

Kremer e Kantor realizzano quindi dei personalissimi Quadri da (un’altra) esposizione, come dice il titolo. Ovvero, Russia: Masks and Faces. Lo spunto – pur nel riconoscimento della sfuggente complessità del rapporto fra immagini e suoni – ha un risvolto politico diretto. Lo chiarisce lo stesso violinista nel programma di sala: «Volevamo che i problemi sociali e politici dei nostri giorni fossero il tema principale. Ci siamo concentrati sull’impatto che un regime totalitario può avere su coloro che sono costretti a vivere sotto di esso, e allo stesso tempo abbiamo osservato tensioni e ingiustizie dal punto di vista dell’arte. Abbiamo tutti una certa consapevolezza dei problemi e della sofferenza che la gente ha affrontato durante la dittatura passata. La situazione non è cambiata».

Presentata al Ristori in prima assoluta per l’Italia, proprio in quel Veneto che politicamente invece strizza l’occhio al regime di Putin, questa rilettura di Musorgskij ha molte frecce al suo arco. La trascrizione priva l’ascoltatore di molti effetti ma non della ricchezza inventiva originale. E del resto i virtuosi della Kremerata Baltica s’incaricano di offrire una straordinaria densità e articolazione timbrica al gruppo degli archi. Quasi in articolazione drammaturgica, i Quadri sono incastonati senza soluzione di continuità fra altre due pagine strumentali: la Serenata malinconica di Cajkovskij, in versione per violino solista e archi, che serve a definire il clima psicologico, e la desolata Serenata per violino dell’ottantenne compositore ucraino Valentyn Sylvestrov: Gidon Kremer da solo, nella luce di un “occhio di bue” che lascia tutti gli altri sul palcoscenico al buio, suona note che non lasciano niente alla speranza.

Ben altro clima si era respirato nella prima parte dello spettacolo. In apertura è stata eseguita la Suite dall’opera Orfeo di Philip Glass. Un adattamento al quadrato, visto che si tratta della versione per archi e percussioni di una partitura pianistica (non di mano dell’autore) tratta nel 2000 da quella operistica, che risale al 1991. Grande fascino, in ogni caso. Per la geniale forza comunicativa del minimalismo di Glass e per la qualità strumentale sciorinata sia dalla Kremerata Baltica sia da Gidon Kremer in veste di solista, con una leggerezza adamantina e un suono sempre di suprema bellezza. Lo ha ben dimostrato anche la Fantasia di Schubert, che rispetto all’originale versione per violino e pianoforte, in quella per violino e archi acquista una dimensione più trasognata nelle parti lente e introspettive, più trascinante in quelle rapide e virtuosistiche. Luogo ideale per il superbo magistero di Gidon Kremer, perfetto nello stile, commovente nell’adesione integrale e profonda alla poesia schubertiana. Teatro affollato, accoglienze di grande calore.

Foto: Maurizio Brenzoni

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