Cronache

L’ Arena ridotta a “ostaggio” politico

Il commissario Fuortes prorogato da Franceschini senza "data certa": così anche le lungaggini burocratiche per i finanziamenti della legge Bray diventano una variabile elettorale intorno al referendum del 4 dicembre, nel quale Tosi si è schierato a fianco di Renzi. Ma la costituzione del Consiglio di Indirizzo nasconde molte insidie, fra ruolo della Regione e latitanza dei soci privati

A quaranta giorni dal referendum, nel bel mezzo della serrata di due mesi a carico dei dipendenti, necessaria per tenerla in vita, la Fondazione Arena di Verona appare ridotta a “ostaggio” della campagna elettorale. Il decreto di proroga del commissario straordinario Carlo Fuortes, firmato qualche giorno fa dal ministro dei beni culturali Dario Franceschini, è un capolavoro “diplomatico” di nebulosità all’antica democristiana: incarico sen
za un reale termine, fino alla costituzione del nuovo Consiglio di Indirizzo. Il controllo della Fondazione sembra diventato un premio omaggio collegato all’esito referendario, messo in palio per la notoria adesione della prima ora al fronte del Sì da parte di Flavio Tosi. Sembra ormai chiaro che in caso di vittoria della riforma costituzionale, prima di lasciare palazzo Barbieri nella prossima primavera il sindaco avrebbe via libera per costituire il Consiglio di Indirizzo, che proporrà al ministro il nome del nuovo sovrintendente.

Il decreto di Franceschini è drammaticamente sbagliato non perché proroga Fuortes (alternative non ce n’erano) ma perché non lo fa a “data certa”, fosse stato solo un mese, oppure altri sei. E perché fa diventare una variabile politica anche le lungaggini burocratiche che ritardano l’accesso ai fondi della Legge Bray, 10 milioni indispensabili per iniziare a mettere in sicurezza i conti. Quanto ciò sia responsabile, ciascuno lo vede. In questa situazione, le manovre dentro e fuori dalla Fondazione, già prima incessanti, sono destinate a diventare un tornado che lascerà sul campo altre macerie, prima che le chiavi vengano consegnate a qualcuno che si troverà in un desolato paesaggio con rovine.

È veramente paradossale che il sindaco di Verona, con i modi di chi non riesce a trattenere la soddisfazione per essere a un passo dal traguardo, già faccia capire di voler ricostituire lo stesso Consiglio d’Indirizzo che ha guidato – si fa per dire – la Fondazione dalla primavera del 2015. Sono gli amministratori che nel novembre 2015 hanno avuto la bella pensata di cancellare unilateralmente il contratto integrativo, scatenando la dura reazione dei dipendenti; quindi hanno sostenuto a spada tratta la non necessità di ricorrere alla legge Bray appositamente prorogata per l’Arena, salvo cambiare idea all’ultimo minuto; hanno assunto a caro prezzo una nuova direttrice operativa per condurre le trattative, vedendola fallire nel giro di un paio di mesi (ma lei, Francesca Tartarotti, resterà fino all’autunno del 2020 a 135 mila euro all’anno); hanno infine richiesto – caso unico nella storia dei teatri d’opera italiani – la liquidazione coatta della Fondazione. Franceschini ha deciso invece di liquidare loro, imponendo il commissariamento.

Con l’aria che tira oggi, c’è chi può sostenere che Tartarotti è una risorsa interna a costo zero, dimenticando che è stata assunta 9 mesi fa nei termini appena ricordati. E addirittura vedere il vicedirettore artistico Sobrino come un serio candidato alla sovrintendenza, anche se non ha alcuna esperienza specifica e competenze in ambito di organizzazione artistica tutte da verificare.

Ma la nomina del CdI non è la formalità che si vuole far credere. E una sempre opportuna lettura dello statuto della Fondazione Arena, incrociata con le disposizioni di legge, fa capire perché. Vi si trova ad esempio che il Comune di Verona ha diritto a un solo componente e non a due come spesso si è letto. Oltre ovviamente al sindaco-presidente. Mentre un consigliere dev’essere nominato dalla Regione del Veneto e uno dal Governo. Ora, si può concordare sul fatto che la nomina del consigliere di spettanza ministeriale non sarà un problema per il sindaco (peraltro solo nello scenario referendario più favorevole), ma sarà interessante vedere come la Regione presieduta da Luca Zaia adempirà alla nomina di sua spettanza in casa dell’arcinemico Flavio Tosi. Qualcuno si stupirebbe se la cosa rimanesse quanto meno in sospeso?

Il numero minimo di consiglieri (cinque; il massimo è sette) finora era stato raggiunto con un consigliere espresso dalla Camera di Commercio, socio privato della Fondazione. L’incertezza sul nome del prescelto, di cui i giornali hanno dato conto, nasconde un problema ben più spinoso. I soci privati possono entrare in CdI solo se la loro contribuzione arriva al 5% di quella dello Stato, anche cumulativamente (ovvero, se due soci privati contribuiscono ciascuno per il 3%, essi hanno diritto, insieme, a un consigliere). Non è affatto chiaro se la Camera di Commercio da sola arriverà a superare questo “sbarramento” d’ingresso, considerando la recente diminuzione della sua contribuzione, in parte nemmeno versata.

Altri soci privati non si vedono oggi all’orizzonte. Dunque c’è la concreta possibilità che per arrivare al numero minimo di componenti del CdI, specialmente in caso di “surplace” della Regione, Tosi debba trovare sul tamburo qualcuno disposto a sganciare un bel po’ di quattrini. A chi potrebbe rivolgersi? Ma ai privatizzatori e alle loro truppe finanziarie d’assalto, naturalmente. Così il cerchio si chiuderebbe. Lì si vedrebbe una volta per tutte se i grandi sostenitori del privato parlano la lingua della concretezza e non solo quella degli slogan. E si capirebbe quanto manca alla morte del pubblico teatro d’opera, un tempo glorioso, chiamato Fondazione Arena di Verona.

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