Opera

Battistelli, risate alla napoletana

"Il medico dei pazzi" (2014) in prima italiana al Malibran di Venezia. Dalla commedia di Eduardo Scarpetta un'incursione nel comico che si vale anche di ironiche citazioni verdiane. Scrittura vocale multiforme, e tavolozza strumentale di spigliata vivacità, fra il grottesco e il parodistico

Luciano Berio, uno dei totem dell’avanguardia musicale europea nel secondo Novecento, aveva intuito che nel suo collega compositore Giorgio Battistelli, di una ventina d’anni più giovane, scorreva impetuosa (anche) la forza dell’ironia. Non era constatazione priva d’importanza. Negli anni Settanta, quando Battistelli si affacciava alla ribalta della scena compositiva nazionale e internazionale, il comico in musica era sbiadito e sospetto, quindi rifiutato, inesorabilmente tacciato di non essere “moderno”. Da allora, sia pure dopo un itinerario lungo e tortuoso, la musica “d’arte” ha cambiato pelle e molto se n’è giovato il teatro, che è la principale, anche se non l’unica sede in cui la risata trova naturale collocazione. Contemporaneamente, il concetto stesso di “avanguardia” è progressivamente sfumato e perfino l’idea di “modernità” non è più così apodittica. E oggi quasi più nessuno dubita che anche una partitura perfettamente tonale e francamente melodica possa essere buona musica. Così come è chiaro che c’è un futuro per l’opera, dopo che l’avanguardia aveva provato a liofilizzarla e snaturarla tagliandone le radici, a lungo riuscendo nell’impresa.

Il sessantatreenne Battistelli – una carriera significativamente importante anche come direttore artistico e curatore di festival – può essere considerato uno dei protagonisti della resilienza operistica, come dimostra un catalogo nel quale i titoli per la scena sono ben oltre la trentina. Quanto al comico, in tutte le sue declinazioni, la naturalezza con cui il musicista romano lo impiega è pari alla sua disinvoltura nel recuperare le antiche pratiche della tradizione melodrammatica, ovvero la capacità di musicare soggetti provenienti da altri contesti drammaturgici non meno che letterari. E nel suo caso, anche cinematografici. Lui è infatti il musicista che non ha esitato di fronte all’idea di scrivere un’opera da Teorema di Pasolini (1992), Prova d’orchestra di Fellini (1995), Miracolo a Milano di De Sica (2007), Divorzio all’italiana di Germi (2009). E anche se nell’ambito drammatico o tragico ha dato prove degne di particolare nota (Riccardo III da Shakespeare, per esempio), il segno della commedia in quasi tutte queste trasposizioni cinematografiche (Pasolini è un altro discorso) è preminente e significativo.

Con il recentissimo Il medico dei pazzi, presentato a Nancy nel 2014 e in questi giorni al Malibran di Venezia per la stagione della Fenice e per la prima volta in Italia, l’intreccio degli spunti drammaturgici è stratificato. Il punto di partenza è naturalmente la deliziosa commedia omonima di Eduardo Scarpetta, un concentrato di ironia paradossale, gusto degli equivoci più strampalati, ambiente napoletano; ma il soggetto è anche quello di uno dei più popolari film con Totò, diretto da Mario Mattoli nel 1954. Un classico della comicità, insomma, che Battistelli maneggia con sorridente efficacia, dopo avere provveduto a costruirsi personalmente il libretto.

L’ilare vicenda è quella di un nipote sciagurato che si è mangiato al gioco i soldi dello zio, invece di adoperarli per realizzare una clinica, come desiderava l’anziano parente, al quale fa credere che una pensioncina di Mergellina sia il luogo di cura da lui creato, e tutti i suoi occupanti i pazienti fuori di testa. Su di essa Battistelli costruisce un gioco nel quale comico e parodistico s’intrecciano. A fianco e all’interno della storia in quanto tale, musicalmente resa con un linguaggio strumentale dai colori brillanti e dall’incessante vivacità ritmica, scorre infatti una vena caricaturale che prende di mira in particolare il “padre della patria melodrammatica”, Verdi, ora citato più o meno letteralmente (brevi ma famosi incisi dalla Traviata e da Otello) ora “evocato” in maniera più colta e mediata, sempre pungente. Oltre la modernità di gusto di una scrittura strumentale mai corriva, capace anzi di scarti espressivi assai significativi all’interno del grottesco e dell’ironico, decisiva è la scrittura vocale, mai piegata alle forme solistiche tradizionali, ma improntata a un aggiornamento del “canto di conversazione” nel quale l’arioso, il declamato e il parlato si fondono con accattivante effetto teatrale.

A Venezia, Il medico dei pazzi è proposto in un nuovo allestimento (rispetto a quello di Nancy) firmato da Francesco Saponaro per regia e scene e da Carlos Tieppo per i costumi. L’ambientazione – su due livelli sovrapposti – è portata agli anni ’50 e risulta essenziale ma efficace, con grandi immagini di Napoli e dei paesaggi vesuviani a fare da sfondo. Felice Sciosciammocca, il protagonista, ha le movenze caricaturali e il ciuffo del Pappagone di Peppino De Filippo, gli altri incarnano con efficacia la vetrina dei caratteri immaginati da Scarpetta, fra napoletanità e universalità. La spigliata e folta compagnia di canto ha visto in evidenza Marco Filippo Romano (Felice), Milena Storti (Amalia Strepponi, altra parodia verdiana con il nome della seconda moglie), Maurizio Pace (il violinista spiantato Errico), Sergio Vitale (il nipote scialacquatore, Ciccillo), Filippo Fontana (Raffaele), Loriana Castellano (Concetta). Sul podio c’era Francesco Lanzillotta, per una direzione attenta e spigliata, incisiva e di buona forza comunicativa.

Teatro affollato, risate e grandi applausi alla fine. Tutto molto lontano da certi antichi “riti” dell’avanguardia.

Foto: © Michele Crosera

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