Concerti

Una rassicurante tradizione tedesca

L'Orchestra Sinfonica di Bamberg, che festeggia i 70 anni, al teatro Filarmonico di Verona per il Settembre dell'Accademia. Suono equilibrato e corposo, ottimamente gestito dal direttore Christoph Eschenbach, in un programma diviso fra Beethoven e Brahms. Nel Concerto "Imperatore", poco slancio epico e molto lirismo da parte del pianista Saleem Ashkar

Sarà anche l’erede e la continuatrice del “suono boemo” di Mozart e di Mahler, come si legge nelle note illustrative sul programma di sala, ma ad ascoltarla l’Orchestra Sinfonica di Bamberg, che festeggia i 70 anni di attività, appare soprattutto come una solida, efficiente, attenta rappresentante del “suono tedesco” in senso generale. Parliamo del suono tipico di una tradizione esecutiva nata con il “mito del direttore”, nel secondo Ottocento, e dominante almeno fino agli anni ’70-’80 del secolo scorso, prima di lasciare spazio (lentamente) a nuove soluzione interpretative. Un suono corposo, duttile, che rifugge dagli estremi timbrici per privilegiare l’impasto ricco di colore ma introspettivo, denso, coinvolgente. Grazie ad esso, più di una generazione di appassionati ha fatto la conoscenza, sui dischi e nelle sale da concerto, con il grande repertorio sinfonico, che non a caso era comunque “germanocentrico”. Non perché i Karajan, i Böhm, a modo loro i Bernstein o i Toscanini non frequentassero anche altri autori, ma perché comunque li riconducevano a quella visione, pur nelle diversità di articolazione ed espressione.

E dunque, c’è qualcosa di antico e pur sempre familiare nella compattezza essenziale e nella salda coesione fra le sezioni, così come nel controllo delle dinamiche e dei colori, che fin dai primi accordi appaiono come il “marchio di fabbrica” dei Bamberger Symphoniker, tanto più se il loro debutto sul palcoscenico del Filarmonico di Verona, ospite il Settembre dell’Accademia, avviene con un programma pure quello di rassicurante richiamo tradizionale: metà Beethoven e metà Brahms, un grande Concerto pianistico, il popolarissimo quinto, detto “Imperatore” e una grande Sinfonia, la Terza in Fa maggiore. Del tutto standard, nella locandina, l’apertura con una Ouverture, la beethoveniana Egmont, che in genere ci perde qualcosa, nell’essere proposta a freddo, senza che la temperatura emozionale sia già a buon punto, ma non nel caso dei Bamberger, che quando salgono sul palco danno l’impressione di essere già caldi a dovere. Semmai irrituale la chiusa, dopo la Sinfonia brahmsiana, con una piccola scelta di Danze Ungheresi dello stesso autore, quasi si volesse dissipare l’atmosfera umbratile e pensosa di quel grande capolavoro con un po’ di chiasso sorridente ed estroverso. Pezzi da bis, secondo la “vulgata”, portati all’interno del programma perché come bis c’è stato un altro super classico, l’Ouverture dalle mozartiane Nozze di Figaro.

A guidare i Bamberger in questo percorso di “greatest hits” c’era Christoph Eschenbach, che conosce a fondo quest’orchestra per averla diretta in carriera più di 150 volte. Il settantaseienne maestro di Breslavia (del resto profondo conoscitore anche di questo repertorio, tutto proposto a memoria) ha gesto molto dettagliato e preciso, funzionale a una lettura del classici romantici di sicuro lignaggio culturale, fatta di nitidezza formale non meno che di un’ampia gamma espressiva. Lo si è apprezzato in particolare nella Terza di Brahms: un’esecuzione di notevole risalto strumentale e di accurata definizione nei tempi e nelle dinamiche, capace di esprimere un’eleganza pensosa, autunnale, sensibilmente introspettiva nei due movimenti centrali, prima delle giuste aperture a un’eloquenza più estroversa nell’Allegro conclusivo, comunque distantissimo dalla retorica trionfale della maniera romantica. Un Brahms già oltre le semplificazioni esteriori, anche se un passo più in qua delle sottolineature quasi decadentistiche che sempre più spesso trovano spazio nelle intepretazioni, all’insegna di un equilibrio che richiama l’insopprimibile vocazione classicistica del musicista amburghese.

Propenso a un lirismo sofisticato e concentrato è parso il pianista israelo-palestinese Saleem Ashkar, che ha delineato un “Imperatore” senza l’eloquenza epica che caratterizza il primo e l’ultimo movimento, con un suono che solo a tratti ha avuto il peso e l’efficacia più coinvolgenti, ma è risultato di grande eleganza e profondità lirica nel bellissimo “Adagio un poco mosso” che è il movimento di mezzo, risolto con suadente efficacia poetica. Un’inclinazione messa in evidenza perfino radicalmente nel bis che Ashkar ha concesso per le cordialissime accoglienze del pubblico che gremiva il teatro Filarmonico: una schumanniana Träumerei (dalle “Kinderszenen” op. 15) dalle sfumature coloristiche estenuate tanto quanto il tempo assai lento e la scelta espressiva quasi astratta.

Aperta dallo scatto eroico dell’ouverture Egmont, risolta da Eschenbach non accattivante stringatezza e nitidezza timbrica, la serata si è chiusa in leggerezza e virtuosismo. Non tanto nelle Danze di Brahms, ma nella trina perfettamente cesellata dagli archi e dai fiati di quel vero e proprio “moto perpetuo” che è l’Ouverture dalle Nozze di Figaro. Dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, del solidissimo magistero strumentale dei Bamberger Symphoniker.

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