Concerti

Mehta, il fascino delle “Incompiute”

L'Ottava di Schubert e la Nona di Bruckner, mondi lontani e vicini. Al Filarmonico di Verona, per il Settembre dell'Accademia, il direttore indiano alla testa della "sua" orchestra del Maggio Fiorentino, che è risultata più a suo agio con i poetici colori strumentali disegnati dall'autore di inizio Ottocento

Nella musica, l’incompiutezza non è un fenomeno più raro che nella pittura o nella letteratura. Ciò nonostante, spesso le sue manifestazioni sono avvolte in una sorta di “aura magica”, diretta conseguenza di un atteggiamento estetico nato durante l’epoca romantica e ancora molto comune nel nostro modo di ascoltare. Davanti a una composizione incompiuta, quasi mai ci si limita alle normali considerazioni oggettive sulle motivazioni per cui essa non è stata portata a termine e si resta affascinati da tutta una congerie di ipotesi che da un lato tendono ad ammantare di mistero l’interruzione del lavoro, dall’altro la caricano di significati “altri”, idealisticamente profondi anche se quasi sempre indimostrabili. Evidentemente non ci basta la prosaica normalità che quasi sempre determina gli arresti creativi: caduta di interesse o di ispirazione, innanzitutto, e poi tutti i normali “accidenti” della vita, dalla necessità di dedicarsi ad altro per motivi economici o personali spesso del tutto estranei all’attività artistica, fino alla malattia e soprattutto, ovviamente, alla morte.

Al Teatro Filarmonico, proprio l’incompiutezza era il tema del magnifico concerto che ha visto tornare sul podio a Verona Zubin Mehta, a distanza di cinque anni dalla sua ultima presenza (allora con la Filarmonica di Israele, questa volta con l’orchestra del Maggio Fiorentino). Non finite sono infatti sia la Sinfonia in Si minore di Schubert (a volte numerata come Settima, a volte come Ottava), sia la Sinfonia in Re minore di Bruckner, la sua Nona, che componevano il denso programma della serata. Nel primo caso, mancano due movimenti, il terzo e l’ultimo; nel secondo solo l’ultimo. Ma la differenza più evidente è che Schubert campò ancora altri sei anni, dopo aver messo da parte la sua composizione (dall’autunno del 1822 all’autunno del 1828) mentre Bruckner non riuscì a finire la sua opera perché morì (nel 1896) mentre stava mettendo a punto il quarto e ultimo movimento. Nell’un caso e nell’altro, l’esistenza di vari abbozzi delle parti mancanti, più o meno sviluppati, hanno fatto sì che qualche musicologo abbia tentato di realizzare il completamento di queste sinfonie: lavori minuziosi, meritevoli su un piano puramente tecnico, dei quali facciamo tranquillamente a meno nelle sale da concerto.

Se per Bruckner il motivo dell’incompiutezza è pacifico, e al massimo possiamo fare qualche considerazione sul fatto che dedicando “Al buon Dio” questo suo lavoro, il pio compositore realizzava così la sua ultima preghiera in musica, per Schubert la questione resta anche oggi tutt’altro che chiara, complicata dalla presenza di appunti di mano dallo stesso compositore che possono far pensare a un “programma interno” della Sinfonia stessa, improntato a una sorta di “narrazione” di drammatiche vicende personali in un contesto singolarmente onirico. La vera eccezionalità di questo capolavoro, tuttavia, non consiste nel fatto che sia rimasto mutilo (e rivelato al mondo quasi 40 anni dopo la morte del musicista, nel 1865) ma nel suo essere qualcosa di decisamente “estraneo” alle consuetudini dell’epoca (e a quelle dello stesso Schubert): un torso dalla grandiose proporzioni, di fremente e travolgente potenza drammatica, un frutto del tardo stile schubertiano (Nona Sinfonia, ultime Sonate) inopinatamente maturato quando il suo percorso creativo ne era ancora lontano. Naturalmente è Beethoven la pietra del paragone, ma rispetto al “Titano”, qui l’essenzialità della forma classica viene abbandonata a favore di un andamento molto più erratico, quasi rapsodico, armonicamente evocativo, melodicamente “aperto”.

Il carismatico ottantenne, Zubin Mehta, rilegge questi due movimenti con una tensione che confina con la ieratica contemplazione. Il fraseggio è posato, meditato; il suono è classicamente drappeggiato, sostanzioso ma capace di poetiche trasparenze e di sottili dolcezze, specialmente nell’Andante con moto, notevole vetrina dell’ottima predisposizione dell’orchestra fiorentina al repertorio del Classicismo e del primo Romanticismo.

Delineata così l’unicità di Schubert, che abbandona le certezze del Classicismo e si affaccia sui turbamenti romantici, nella seconda parte della serata il direttore di Mumbai ha indicato chiaramente come Bruckner possa essere considerato uno dei più fedeli “eredi” della poetica del compositore viennese, naturalmente ingigantita formalmente e sul piano del suono, ma comunque improntata all’incessante elaborazione di cangianti paesaggi sonori dell’interiorità. Il respiro possente dei tre movimenti della Nona bruckneriana (ben più di un’ora di musica) si sono quindi distesi con maestosa eloquenza nel gesto di Mehta e hanno visto l’orchestra del Maggio impegnatissima a dare a questa linea la corrispondente plasticità monumentale di suono. Non sempre il risultato è parso raggiunto al meglio, specie per quanto riguarda la compattezza e la profondità di suono degli archi, ma i tempi “comodi” ancora una volta scelti dal direttore hanno favorito, con la sottolineatura emozionante della poesia bruckneriana, la precisione e l’emersione di belle isole timbriche nei legni e nei numerosissimi ottoni prescritti (tube wagneriane incluse) dal musicista austriaco.

Teatro al gran completo, per questo che era il secondo appuntamento del Settembre dell’Accademia. Alla fine, dieci minuti di entusiastici applausi.

Foto: Maurizio Brenzoni

Anton Bruckner, Sinfonia no. 9 in re minore: II. Scherzo

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