Oltre l’opera e la musica sacra e oltre la musica da camera. Oltre Mozart, Rossini e Brahms (per non dire della raffinata serata contemporanea-romantica con la musica vocale di Fabio Vacchi e di Schumann, in un confronto dagli echi espressivi per molti aspetti illuminanti), le Settimane Musicali al Teatro Olimpico hanno delineato quest’anno un itinerario nel mondo del violino e soprattutto nell’arte di suonare il violino. È avvenuto nei tre concerti che in certo modo deviavano rispetto al rigore del programma cameristico, incentrati appunto su Brahms. Nella serata conclusiva del festival, maestro e allieva, Giovanni Guglielmo e Sonig Tchakerian, si sono misurati con se stessi, con la propria storia e non per caso con Vivaldi e Bach. Ventiquattr’ore prima, in un concerto “fuori sacco” inizialmente non previsto ma che ha finito per irrobustire questa riflessione sul principe degli strumenti ad arco, ecco il debutto di un solista cinese, Dan Zhu, ancora giovane ma già presente in molti dei luoghi che contano nella musica internazionale, da Salisburgo a Tanglewood (Usa). E risalendo alla fine di maggio, un altro esordio olimpico, di un’ancor più giovane violinista russa, Ksenia Milyavskaya, giunta dall’Accademia di Imola dov’è fra i protagonisti dell’allargamento didattico (e artistico) di quella benemerita istituzione ad ambiti esterni alla tastiera, per la quale era nata.
Dan Zhu è un violinista di notevole immediatezza, che suona con una facilità tale da far sembrare ogni asperità tecnica una semplice formalità. Il suo suono è sottile, spesso più tagliente di quel che servirebbe e lo si è notato in particolare nella giovanile Sonata di Richard Strauss, dalle forti ambizioni formali e di spessore sonoro (lo accompagnava al pianoforte Oliver Triendl). La conclusiva Sonata in La maggiore di Franck, caposaldo della letteratura violinistica romantica, è stata mantenuta nei confini di un’asciuttezza espressiva che poteva far pensare a una certa freddezza probabilmente più apparente che reale, anche se questo giovane musicista non ha dato l’impressione di una ricchezza comunicativa di particolare fascino.

E tuttavia, bisogna riconoscergli un pensiero musicale non banale, visto nella serata ha voluto inserire anche tre piccole Fantasie del compositore cino-americano contemporaneo Bright Sheng (“Canzone dei sogni”, “Aria tibetana” e “Canzone d’amore del Kazakhstan”), brani scritti nel 2006, innervati da temi etnici e delineati con linguaggio di trasparente semplicità e di qualche eleganza, cui Zhu ha aderito con puntigliosa precisione.
Ben altra qualità di suono esprime la non ancora trentenne russa Ksenia Milyavskaya. Affiancata da Alessandro Tardino al pianoforte, lo ha dimostrato, più che nella stucchevole Sonata op. 75 di Saint-Saëns, nella seconda Sonata di Prokofev, stagliata con grande duttilità espressiva, ricchezza di sfumature, profondità di analisi stilistica.
Dopo questi antecedenti internazionali, l’appuntamento conclusivo del festival (in un teatro Olimpico al gran completo) ha avuto il carattere anche di un confronto con la scuola italiana, anzi veneta, del violino, rispetto a quella russa, di fondamentale importanza storica, e a quella cinese, che è molto più recente. L’occasione era anche un sentito, intenso omaggio all’arte di Giovanni Guglielmo, ottantenne protagonista di una vicenda straordinaria anche come didatta, da parte di una delle sue allieve più brillanti, Sonig Tchakerian. Con l’apporto dell’Orchestra di Padova e del Veneto, non sempre precisa come in altre occasioni, la serata ha offerto un affascinante confronto ravvicinato fra Bach e Vivaldi, ciascuno “rappresentato” da un Concerto per due violini (in apertura e chiusura di programma) e da uno per violino solo. Occasione ideale per cogliere quanto il tedesco abbia fatto fruttare l’intuizione formale del veneziano (notoriamente studiato con particolare attenzione), offrendone prospettive più sostanziose, ma chiaramente di essa debitrici. E per notare la felicità belcantistica del “prete rosso” nella scrittura per lo strumento solista, contraltare “italico” della profondità riflessiva connaturata al “Cantor”.
Di tale invenzione unica e seducente, Guglielmo ha fornito un’interpretazione di straordinaria introspezione, nella quale l’agilità e la precisione erano funzione di una riflessione illuminante sul suono e sulla linea melodica, poetica nel dolcissimo Adagio, limpida e dettagliata nei due movimenti svelti. Interpretazione tanto più magistrale in quanto in essa si è colta la profondità e la forza della grande tradizione esecutiva del Barocco (in cui Guglielmo si è formato) prima della “rivoluzione filologica”, ma anche l’attenzione sapiente e sempre ben motivata per gli aggiornamenti dettati dalla “prassi esecutiva”.
In fondo sulla stessa linea, musicale a tutto tondo, si muove Sonig Tchakerian, che da solista nel bachiano Concerto BWV 1042 ha fatto brillare il calore e la ricchezza del suono, la perentoria efficacia dell’arcata, la sensibilità delle sfumature espressive. Insieme, Guglielmo e Tchakerian hanno dialogato con la naturalezza implicita della comunanza di pensiero e di tecnica creata dal rapporto artistico fra maestro e discepola, dando vita anche a una raffinata serie di bis, aperta dall’Allegro conclusivo del Concerto vivaldiano n. 8 dell’Estro Armonico, proseguita con le rarissime Variazioni per due violini su “Non più mesta” dalla Cenerentola di Rossini, scritte dal compositore maltese dell’Ottocento Emanuele Nani, suggellata dalla trasognata poesia di uno dei 44 pezzi per due violini lasciati da Bela Bartók.
Foto: Luigi De Frenza