Cronache

Morricone, l’invenzione integrale

L'Oscar per la colonna sonora di "The Hateful Eight", film di Quentin Tarantino, premia un compositore che non cessa di rinnovarsi senza tradire la sua formazione colta, ma anzi esaltando il valore materico del suono e un virtuosismo nella strumentazione che ha pochi eguali

Lo sciocchezzaio giornalistico inevitabilmente scatenatosi intorno a Ennio Morricone – finalmente vincitore di un Oscar, dopo cinque candidature senza successo – ha raggiunto l’apice quando gli è stato chiesto se quella per il film di Tarantino sia la sua migliore colonna sonora. A domanda stupida, risposta evasiva. «Non credo», ha detto il maestro romano. E giureremmo che si sia trattenuto, evitando di aggiungere che a rigore la musica scritta per The Hateful Eight appartiene a un genere diverso da quello delle pure e semplici “soundtrack”. Meglio non spiegare troppo che la partitura comprende materiali risalenti al lontano passato de La cosa di Carpenter, fanta-horror datato 1982. E che si tratta della chiusura di un capitolo vecchio e importante della sua vicenda artistica, la fine della “musica da western” com’era nata all’epoca di Sergio Leone nei primi Sessanta.

Morricone ha lavorato sulla sceneggiatura di Tarantino con il taglio che gli è tipico, quello di un musicista assoluto che crea le sue “immagini” a partire dal lavoro sul suono. Un metodo che attraverso lunghi decenni di storia del cinema spesso è passato in secondo piano, perché questa musica poi è diventata una sorta di “adesivo emozionale” di scene indimenticabili. Lo stesso musicista, da molto tempo a questa parte, non cessa di ricordarlo e ribadirlo nei fatti. Come considerare, infatti, la tournée senza fine cui Morricone si sottopone, ormai vicino ai novant’anni, fitta di concerti in cui le colonne sonore diventano pure musica sinfonica? Un business, certo. Ma anche la sottolineatura della orgogliosa autonomia artistica di queste partiture, di queste invenzioni.

La musica per The Hateful Eight è una sorta di ricapitolazione di molti congegni di stile. Per una volta, la seducente vena melodica del compositore cede il passo ad altro, come in una rivisitazione dello stile “minimalista” che ha segnato la musica specialmente americana dell’ultimo ventennio del XX secolo. Il cuore di tutto sta nel vero e proprio poema sinfonico intitolato “Neve”, 12 minuti nei quali perfino l’armonia di tranquillizzante connotazione tonale sembra sospesa, a favore della lenta evoluzione e iterazione di nuclei motivici astratti, su uno sfondo di note lungamente tenute, lavorati al bulino in una strumentazione come sempre raffinata. L’altro grande pezzo della partitura, “L’ultima diligenza di Red Rock” appare come un’elaborazione timbrica e ritmica di “Neve”, nella quale la pulsione melodica emerge solo per essere compressa, soffocata. Rimangono cupe macchie di colore (timpani e controfagotto), autocitazioni (qualche breve inserto di coro maschile). Scorre continuamente un oppressivo e quasi ossessivo senso della ripetizione, con bassi striscianti e allusivi: il pensiero sonoro di un autore sofisticato, ispirato dallo script di un cineasta trasgressivo e sempre sopra le righe. E poiché Ennio Morricone non ha meno ironia di Quentin Tarantino, il finale del film, con la lettura di una lettera di Lincoln in uno scenario di morti orribilmente ammazzati, è occasione della più paradossale citazione della maniera western: una nobile ed emozionante tromba solista su sfondo di archi esalta una retorica civile americana contraddetta da tutta la storia. E anche dalla musica.

P.S. Sulla diligenza di Tarantino e Morricone poche ore dopo l’Oscar sale anche la stella Lang Lang, con una versione pianistica di “Ouverture”, francamente “hateful”. Business is business, ma c’era proprio bisogno?

 

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