Opera

Adulteri in dramma e in commedia

Alla Fenice il ritorno del verdiano "Stiffelio", che mancava dal 1988: una straordinaria anticipazione della grande svolta drammaturgica della "trilogia popolare". Nel cast in evidenza il tenore Stefano Secco Al Malibran un dittico novecentesco sugli inganni nel rapporto fra uomo e donna: "Agenzia matrimoniale" di Roberto Hazon (1962) e "Il segreto di Susanna" di Ermanno Wolf-Ferrari (1909)

Alla vigilia degli anni che cambieranno la storia del melodramma in Italia (Rigoletto è del 1851, Il Trovatore e La Traviata del 1853), Verdi mette a punto la sua nuova drammaturgia – in progressivo per quanto non lineare affinamento – con una serie di opere che oggi stanno sulla soglia del repertorio o appena dentro. Titoli comunque famosi come Attila, Macbeth o Luisa Miller, che ricorrono con una discreta frequenza nei calendari delle stagioni liriche. Destino completamente diverso è quello di Stiffelio, l’immediato antecedente di Rigoletto (fu rappresentato per la prima a volta a Trieste nel novembre 1850). Caso unico nella vicenda creativa verdiana, quest’opera di lì a pochi anni – dopo una complicata vicenda in cui la censura ha un ruolo centrale – sarebbe “scomparsa” dal catalogo del compositore per rifluire, con varie modificazioni e ampliamenti, in un’opera nuova, intitolata Aroldo. Solo da un trentennio a questa parte – il merito è delle ricerche di Giovanni Morelli, storico della musica a Ca’ Foscari, scomparso prematuramente cinque anni fa – Stiffelio è tornato sui palcoscenici nella sua versione originale, anche se non con la frequenza che meriterebbe. Affossata, un secolo e mezzo fa, dalla scabrosità del suo soggetto (vi si parla di un pastore protestante che scopre di essere tradito dalla moglie, giunge a un passo dal farsi vendetta ma poi decide di perdonarla, peraltro dopo che la vendetta è stata realizzata dal padre della fedifraga), oggi quest’opera fatica a farsi conoscere per quello che è: uno straordinario “incunabolo” della drammaturgia concisa e travolgente che farà la grandezza della “trilogia popolare”, uno “studio preparatorio” nel quale già sono evidenti le caratteristiche del nuovo stile.

Anche qui, infatti, il lavoro dentro alla psicologia dei personaggi e alla sua evoluzione percorre la strada di una nuova concezione delle forme di tradizione, basata sulla costruzione di scene di temperatura drammatica multiforme grazie alla loro stessa articolazione musicale. Anche qui il linguaggio musicale è denso e rapido ma non sommario, plasticamente evocativo armonicamente e sul piano dei colori. Anche qui la “tipizzazione” dei caratteri sulla scorta delle caratteristiche vocali viene elaborata in schemi che diventeranno canonici (il triangolo tenore-soprano-baritono), ma che non costituiscono alcun ostacolo manieristico. E si deve concordare con chi ha osservato che la parte tenorile di Stiffelio è per certi aspetti più avanzata, per stile ed espressività quasi “eroica”, dei corrispondenti ruoli nella “trilogia”, comunque assai più lirici e talvolta brillanti.

Manca, e questo può spiegare il giudizio del repertorio anche dopo la riscoperta, la grande zampata melodica, la confluenza del progetto in una comunicatività capace di affascinare anche oltre l’efficacia del meccanismo drammaturgico. Si esce da Stiffelio senza avere in testa un solo motivo, eccezion fatta per la magnifica e singolare Sinfonia iniziale, con le sue invenzioni timbriche (c’è anche una tromba in funzione quasi solistica). E se si pensa alle miniere melodiche di Rigoletto, Traviata e Trovatore, traboccanti di gemme destinate a diventare elemento fondante della cultura popolare nell’Italia unita, si capisce perché Stiffelio è rimasto sepolto così a lungo.

La Fenice ha un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo melodramma (qui lo si ascoltò nel 1985 in parallelo con Aroldo, sulla scorta degli studi di Morelli) e appare a maggior ragione opportuna la sua ripresa nella stagione in corso, peraltro a 28 anni dalla sua ultima apparizione, avvenuta nel 1988. L’edizione attuale si vale della regia cupa, oscura e opprimente, di Johannes Weigand, inserita nella scenografia astratta e metallica di Guido Petzold, nella quale domina una enorme cancellata che solo alla fine del primo atto e nel finale dell’opera si apre per dare una dimensione spaziale meno opprimente al tutto. E del resto, il pulpito da cui Stiffelio pronuncerà il suo perdono è ricavato su una sorta di palo della luce che campeggia sullo sfondo. E tuttavia, Weigand mette a fuoco con una certa efficacia il tormentato confronto psicologico fra i personaggi, musicalmente delineato dal direttore Daniele Rustioni con una tensione drammatica ruvida, a tratti sommaria, ben incisa coloristicamente, che guarda agli “anni di galera” precedenti piuttosto che agli incipienti nuovi sviluppi drammaturgici di Verdi.

La compagnia di canto vede svettare lo Stiffelio di Stefano Secco, abile ad attraversare con equilibrata tenuta una parte di grande estensione vocale, secondo una linea di canto ben rispondente alla complessità del ruolo. La moglie fedifraga, Lina, è interpretata dal soprano californiano (con chiari ascendenti italiani) Julianna Di Giacomo, che non è priva della corda patetica ma quando la tensione drammatica sale (e sale la tessitura) mostra forzature di fraseggio e stimbrature. Ricco di voce ben poco controllata è il baritono Dimitri Platanias, padre di lei; positivi il coro e i comprimari, specie il basso Simon Lim e il tenore Francesco Marsiglia.

In alternanza con le rappresentazioni di Stiffelio, la Fenice propone al Malibran (per la serie di iniziative del suo Atelier, in collaborazione con la Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia) un dittico novecentesco che riguarda anch’esso la complessità del rapporto uomo-donna attraverso i poli del tradimento e del perdono, della fiducia e del sospetto, ma l’illumina sul piano ben più leggero della commedia, più o meno pateticamente accentuata.

Nella prima parte dello spettacolo, registicamente condotto da Bepi Morassi con leggerezza e nitidezza, Agenzia matrimoniale (1962) di Roberto Hazon (1930-2006) porta a contatto con l’altra faccia della musica del secondo Novecento, quella sovranamente indifferente a ogni radicalismo avanguardistico, quella dei musicisti “inutili”, secondo la celebre invettiva di Pierre Boulez, che tali riteneva coloro che non sperimentavano la “necessità del linguaggio dodecafonico”. Hazon in Agenzia matrimoniale si concede la massimo qualche dissonanza in chiave espressiva, ma è interessato piuttosto a rivestire una vicenda più patetica che brillante (due caratteri perdenti, due solitudini che si incontrano, si perdono e alla fine si ritrovano) di una vocalità comunicativa e semplice, costruendo scene tradizionali nelle quali non sempre lo strumentale riesce a uscire dalla decorazione per contribuire a costruire una pur leggera drammaturgia.

È quello che invece riesce magnificamente a Ermanno Wolf-Ferrari in Il segreto di Susanna (lavoro del 1909): qui l’orchestra è il personaggio principale dell’esilissimo e fatuo Intermezzo, un leggiadro tête-à-tête fra marito e moglie, con lui che crede che lei la tradisca quando invece il suo segreto è che di nascosto, appena può, si concede una sigaretta. La rifinitura formale è elegantissima, arie e duetti sono niente meno che cesellati; lo strumentale commenta e suggerisce con una ricchezza coloristica davvero efficace, l’insieme è fuori di dubbio un piccolo gioiello che depura i turgori drammaturgici tardo-romantici con sguardo classicistico lieve e magistralmente nitido. Compagnie di canto ben assortite e soprattutto ottimamente impegnate dal punto di vista attoriale: Gladys Rossi, Armando Gabba ed Elisabetta Martorana costruiscono al meglio l’atmosfera un po’ grottesca e in fondo triste dell’Agenzia matrimoniale di Hazon; Bruno De Simone e la giovane Arianna Vendittelli duettano con spumeggiante leggerezza nel Segreto di Susanna, ben coadiuvati dalla maschera e dal gesto di Davide Tonucci, che non parla né canta ma recita alla grande.

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