Cronache

Legge Bray, un salvagente sgonfio

Il fondo di rotazione per i finanziamenti agevolati aumentato solo di 10 milioni, ormai ridotte le risorse a disposizione. Così il presidente della Fondazione Arena, Flavio Tosi, alza il tiro contro i dipendenti Eppure, l'accordo con i sindacati è indispensabile per ottenere il via libera al piano di risanamento

La mattina di Capodanno, appena uscito delle gelide acque del Benaco in cui si era poco prima tuffato, il presidente ibernista-decisionista della Fondazione Arena, il sindaco di Verona Flavio Tosi, ha salutato il 2016 con una raffica di minacce dal sapore antico nei confronti degli artisti areniani. Pronti a sostituire tutti gli scioperanti, ha tuonato davanti ai giornalisti, ancora avvolto nel suo accappatoio. Anche a far venire un’intera orchestra da fuori, “se questi pensano di boicottare la stagione”. In quell’estemporanea conferenza stampa non risulta sia stata fatta una domanda fondamentale, che deriva dalla poco gradevole ma indispensabile lettura delle “carte” intorno a cui gira la crisi della Fondazione, sempre più fuori controllo: la Legge Bray (n. 112 del 7 ottobre 2013), e la Legge di Stabilità 2016, pubblicata poco dopo Natale.

Dal 30 dicembre, tutti sembrano dare per scontato che la Fondazione Arena “aderirà alla legge Bray”, come deciso dal Consiglio di indirizzo. In realtà bisognerebbe dire “proverà a aderire”. Perché la cosa non è affatto scontata o automatica: il comma 1 dell’articolo 11 elenca infatti una serie di otto condizioni, tutte imprescindibili perché il piano di risanamento passi il vaglio del commissario straordinario. Da quando Tosi agita lo spauracchio della Bray, poco o nulla si è parlato delle imperative richieste relative alla gestione economica, moltissimo delle delicate possibili determinazioni sul personale dipendente. Punto c): “riduzione della dotazione organica del personale tecnico e amministrativo fino al cinquanta per cento di quella in essere […] e razionalizzazione del personale artistico; punto g): “cessazione dell’efficacia dei contratti integrativi aziendali in vigore… […]”.

Sembra quasi che nessuno sia andato a leggere ciò che sta scritto nella legge alla riga successiva. E proprio su quello si sarebbe basata la domanda che avremmo fatto noi: con la sua strategia del muro contro muro, con la sua voglia matta di “tirare diritto” e magari di “spezzare le reni” all’avversario, infatti, chissà come pensa Tosi di ottemperare a quanto disposto dalla Legge Bray al comma 2 dell’articolo 11. Vi si dice che il piano di risanamento, oltre a dimostrare di essere “attendibile, fattibile e appropriato nelle scelte” deve essere “corredato dell’accordo raggiunto con le associazioni sindacali maggiormente rappresentative in ordine alle previsioni di cui al comma 1, lettere c) e g)”. Con quali prospettive e in quale clima si svolgerà la trattativa con i dipendenti, obbligatoria per ottenere il “via libera” che è condizione preliminare per chiedere di aderire alla Legge Bray, se Tosi non cessa di mostrare i muscoli e va avanti a sparate mediatiche in chiave antisindacale?

E poi, oltre tutti i gravosi impegni per risanare la gestione economica (che non riguardano certo solo i tagli al costo del personale e sui quali finora il sindaco ha disinvoltamente sorvolato), resta la curiosità di vedere in che modo il piano garantirà – come impone la legge – che non sono stati pagati interessi anatocistici sugli affidamenti bancari. Per il momento, sull’argomento c’è totale opacità. Senza entrare nel merito dell’anatocismo, peraltro, fonti attendibili sostengono che sui prestiti degli istituti di credito alla Fondazione gli interessi sono alti, intorno al 7 per cento. Comunque, condizioni che non si possono certo definire favorevoli.

Anno nuovo vita vecchia, insomma. Non cambia la linea controproducente, spesso in odore di improvvisazione con cui la crisi è stata gestita fin dalla scorsa estate. Una linea fatta di velleitarismo, provocazioni, decisioni unilaterali, tira e molla tra fughe in avanti e attendismo. Una cortina fumogena con la quale si punta a far perdere di vista il nocciolo della questione, ovvero l’inefficacia delle scelte gestionali (sul piano economico-finanziario) e il disastro della progettazione artistica. Una linea contraddittoria: qualcuno nel Consiglio di indirizzo era a conoscenza del fatto che provare ad afferrare il salvagente della Legge Bray significa anche aprire un tavolo sindacale, finora sempre fallito (e lasciamo perdere il gioco delle parti sulle responsabilità delle reiterate rotture)? O credono tutti di poter licenziare a manbassa quando di licenziamenti all’ombra della Bray finora non ce ne sono stati e solo a Firenze è stato fatto un cospicuo ricorso agli ammortizzatori sociali previsti dalla legge, grazie ai quali nessuno è rimasto senza lavoro?

Fra l’altro, il tentativo di aderire adesso alla Legge Bray, grazie alla proroga dei termini introdotta dalla Legge di Stabilità 2016 (comma 355 e seguenti), è condizionato perché tardivo. E il salvagente nel frattempo si è quasi sgonfiato. Visto come sono andate le cose (dopo i conti disastrosi della stagione del centenario 2013, preceduti dai bilanci “cosmetici” messi a punto giocando con la scatola vuota della controllata Arena Extra) la Fondazione veronese avrebbe fatto meglio a cercare di entrare fin dall’inizio nella pattuglia delle richiedenti-aderenti. Non foss’altro che per usufruire di agevolazioni ben più consistenti di quelle che in prospettiva si possono ottenere adesso. Nessuno infatti (questi numeri Tosi non li dà di certo) mette l’accento sul fatto che per il 2016 il fondo di rotazione è stato aumentato di appena 10 milioni di euro (Legge di Stabilità, comma 356). La dotazione della Legge Bray sale così a 158 milioni di euro. Ma secondo quanto riportato dal “Sole 24 Ore” nello scorso ottobre, 115 milioni sono già andati a cinque Fondazioni (Bologna, Firenze, Napoli, Opera di Roma e Trieste), mentre un’altra trentina è destinata alle Fondazioni i cui piani di risanamento attendono solo il via libera della Corte dei Conti (Bari, Genova e Palermo). Rimangono poche briciole, fra l’altro potenzialmente da suddividere fra più nuovi richiedenti, perché oltre a Verona è molto probabile che in lizza ci sarà anche Cagliari e forse perfino le “virtuose” Torino e Venezia.

Quest’ultima poche settimane fa ha potuto salvare il bilancio solo grazie alla sovvenzione “in natura” del Comune, che ha ceduto alla Fondazione un immobile al Lido non potendo elargire quattrini. A Verona, invece, finora la Fondazione paga salato al Comune (480 mila euro) l’affitto del palazzo dove ha sede il Museo della lirica, che costa complessivamente più di un milione e ricava 100 mila euro all’anno. Si dice finora, perché fra le righe di una sua polemica sui bilanci con il Pd, il sovrintendente Girondini ha detto d’improvviso, recentemente, che sono in corso colloqui per non pagare più quella pigione. Ma perché la trattativa – se davvero esiste – non è cominciata prima? Ecco un altro caso emblematico del cronico e drammatico ritardo, figlio dell’inadeguatezza gestionale, con cui la Fondazione Arena prova a sfuggire alla sua dissoluzione.

 

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