Photo by Giorgio Marchiori
Cronache

Arena al collasso, Girondini guarda

Il corpo di ballo scende in sciopero (difficilmente eviterà di essere sciolto), il sovrintendente non fa una piega e incassa l'annullamento di tre serate. Due mesi di tempo per trattare sull'integrativo dei dipendenti, eppure il confronto fra le parti resta ancora al palo. E mentre tutti discettano sui conti (disastrosi) e le sovvenzioni pubbliche, la progettualità artistica è ormai ridotta al lumicino

In caso di crisi, un’azienda normale non si limita a cercare di contenere i costi ma disegna un piano industriale di rilancio che tiene conto di tutte le criticità. E il risanamento passa anche – specie nei casi più gravi – per un radicale rinnovamento del management. In un’azienda normale, se i dipendenti sono in assemblea permanente (leggi: occupazione degli uffici) da più di un mese, anche se garantiscono la produzione, i cosiddetti “tavoli sindacali” sarebbero già aperti e andrebbero avanti a oltranza. Perché salvare il salvabile, e magari di più, sarebbe il primo obiettivo.

La Fondazione Arena – in perdita per 34,8 milioni euro alla fine del 2014 – il piano industriale anti-crisi ce l’ha, un piano lacrime e sangue realizzato da un’agenzia esterna. È stato tenuto nel cassetto per tutta l’estate prima di deflagrare in questo orribile autunno di una Verona che più o meno negli stessi giorni si è vista anche depredare con irrisoria facilità il museo di Castelvecchio.

Ma la gestione della crisi è sorprendente, anzi sconcertante. Quindici giorni di tensione alle stelle, compreso un consiglio comunale monografico fra mille polemiche, prima che l’annuncio dell’abolizione del contratto integrativo diventasse un assenso alla ricontrattazione, peraltro tuttora al palo, con spostamento di due mesi del momento dell’azzeramento. Oppure, notizia freschissima, un’alzata di spalle al minacciato sciopero del corpo di ballo, che ha già fatto saltare il primo di tre spettacoli programmati al teatro Ristori in questi giorni: il consiglio di indirizzo, ha fatto sapere il sovrintendente Francesco Girondini ai danzatori che chiedevano un formale impegno a non mandare tutti a casa, si riunisce lunedì prossimo. E così, niente Schiaccianoci à la carte. L’ultimo blocco di uno spettacolo, andando a memoria, riguardava un concerto sinfonico, circa 15 anni fa.

Accelerate decisioniste e souplesse attendista nella più tipica tradizione del “muro di gomma”: il confronto si gioca sulla resistenza anche psicologica, ma il destino del corpo di ballo (nove elementi in tutto), ben più di quello dell’integrativo, appare segnato. La chiusura servirà anche a minimizzare i possibili effetti di una sentenza ormai imminente del Tar del Veneto, a cui si sono rivolti una ventina di danzatori non dipendenti, per vedere stabilizzata la loro posizione. Se ottenessero ragione, l’inesistenza del corpo di ballo impedirebbe la loro assunzione, come da richiesta, e resterebbe una questione economica di arretrati. Peraltro, un altro peso nel bilancio.

Mentre i sindacati hanno sollecitato la convocazione per trattare sull’integrativo, i dipendenti della Fondazione si dichiarano pronti a un Natale in assemblea permanente e proseguono con le iniziative di “sensibilizzazione” sulla situazione. Un concerto “autogestito” al Filarmonico, sovranamente indifferente a ogni scaramanzia (vi è stato eseguito un Requiem, quello di Mozart), ha avuto grande presenza di pubblico. La settimana prossima nuova serata, in una chiesa vicina all’Arena. E questa volta la chiusura sarà affidata all’Alleluia di Händel, speranzoso inno di gloria.

Intanto, mentre si inseguono le voci su cantanti non ancora retribuiti interamente per le recite della scorsa estate, sono sette mesi che la Fondazione non paga l’affitto (si parla di 170 mila euro) della sede di via Roma al proprietario dello stabile, che vedi caso è la stessa Accademia Filarmonica proprietaria del vicino teatro. Il sovrintendente Girondini ha sostenuto in Tv che la crisi è dovuta a una manovra politica anti-Arena, che riduce i finanziamenti statali. Naturalmente, si può senz’altro ritenere che questa sia l’idea del sindaco Flavio Tosi, vero “dominus” anche operativo della Fondazione. I motivi di questo “complotto” non sono affatto chiari e del resto, a proposito di trasparenza, mai da Tosi si è sentita una parola di chiarezza su due dei tre veri “punti neri” della gestione areniana: il Museo dell’opera “Amo” e la società Arena Extra. Il primo costa più di un milione all’anno, compreso un affitto di mezzo milione per la sede, e non è mai veramente decollato. La seconda è una “scatola vuota” creata all’inizio della gestione Girondini, otto anni fa, servita per cosmesi di bilancio che hanno fatto sembrare i conti in equilibrio quando non lo erano.

Il terzo “punto nero” è il principale: una progettualità artistica ormai allo sbando. Nel 2016, serate in Arena ridotte a 46 (quest’anno sono state 54), cinque titoli, nessun nuovo allestimento (ma tre riedizioni di spettacoli di Zeffirelli, che poco onerose non sono). Ad oggi, non una sola indicazione sui cast vocali o sui direttori nel sito internet ufficiale, dove peraltro è possibile acquistare i biglietti online. E in base a quali elementi gli appassionati dovrebbero acquistare?

È evidente che l’unica strategia è quella di sfruttare l’immagine dell’Arena come luogo di spettacolo. Insufficiente, oggi, nel panorama globale del teatro musicale. E infatti la diminuzione del pubblico è progressiva e apparentemente inarrestabile. Dal sovrintendente, dal consiglio di indirizzo, non una parola sul core business (si chiama opera), mentre tutti discettano di strumenti finanziari, taglio dei costi, sovvenzioni, sponsorizzazioni, rinegoziazione del debito e quant’altro. Tutti guardano il dito invece della Luna. Ma se per magia i conti tornassero positivi, poi che si farebbe?

Si seguirebbe la linea del sindaco? Eccola qua: progressiva riduzione della lirica a mero accidente all’interno di un programma accentuatamente pop-rock, con un nuovo ruolo per Arena Extra. Nuovo anche se pochissimi sanno davvero quale sia stato il vecchio.

Doppiato il centenario della prima mitica Aida (1913), l’opera in Arena è avviata verso un declino inarrestabile. Chi sta al timone della Fondazione (sovrintendente e consiglio) non è intenzionato a spostarsi di un millimetro, quando invece dovrebbe avere salutato già da tempo: per la cronaca e per la storia, una candidatura al non invidiabile ruolo di affossatori di una gloriosa tradizione.

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