Opera

La vetrina del genio di Mozart

Alla Fenice "Idomeneo" esaltato dalla direzione di Jeffrey Tate, magistrale per profondità, consapevolezza stilistica ed equilibrio. La regia di Alessandro Talevi perde di vista la drammaturgia mozartiana, prodigioso anticipo dei grandi capolavori, per inseguire attualizzate tesi generali Compagnia di canto di alto livello: su tutti il tenore Brenden Gunnell e il mezzosoprano Monica Bacelli

Lungi dall’essere solo una promettente ma ancora irrisolta esperienza della prima maturità, Idomeneo, re di Creta è in realtà una sorta di grandioso “portale” con il quale Mozart segna l’ingresso nella stagione più alta del suo teatro musicale. In quest’opera, infatti, egli lucida gli ormai polverosi arnesi formali e stilistici del genere serio all’italiana, indicando la strada della loro evoluzione verso i non troppo lontani panorami neoclassici, e delinea per la prima volta il senso della sua “rivoluzione” drammaturgica ormai imminente, nella quale le situazioni sceniche e le psicologie dei personaggi saranno indissolubilmente legate, oltre ogni arida distinzione di genere.

C’è qualcosa di “esagerato” nella maniera in cui questo avviene, quasi che il musicista sentisse la necessità di una dimostrazione “plateale” del suo genio e soprattutto della sua vocazione assoluta nei confronti del teatro per musica. Idomeneo è infatti un lavoro monumentale sotto tutti i punti di vista. Per le dimensioni, che vanno ben oltre la tradizione, anche considerando che lo stesso autore rinunciò ad alcune Arie per le esigenze della drammaturgia. Per la ricchezza dell’accompagnamento strumentale, del resto conseguenza della migliore delle situazioni possibili, quella di avere a disposizione l’orchestra che fino a pochi anni prima aveva costruito storica fama a Mannheim, e che il principe elettore Carl Theodor aveva trasferito nella nuova sede bavarese. Per la maestosità della scrittura corale e per il radicale capovolgimento del peso specifico musicale e drammatico dei recitativi, quasi sempre delineati con l’intervento di tutta l’orchestra e non solo del cembalo, a disegnare un “continuum” vocale che passa dalla declamazione alla melodia senza soluzione di continuità.

Oltre la indubitabile stratificazione stilistica della partitura, che non rinuncia alle tipologie belcantistiche specialmente in alcuni personaggi, per molti aspetti si può considerare Idomeneo il compimento più alto della cosiddetta “riforma” di Gluck, affidata a un paio di opere simbolo come Orfeo ed Euridice e Alceste. Qui tuttavia, si supera di slancio l’idea del tragico che animava il musicista tedesco e il suo librettista Calzabigi. O meglio, la si affina nella direzione di un tragico “umano” che prevale su quello “mitologico” e quindi accoglie il lieto fine di prammatica nell’opera seria con motivazione drammatiche che l’opera metastasiana mai era riuscita a delineare con tale palpitante partecipazione.

Autentica miniera di musica sublime, trionfante senza cura di misura nei dettagli come nelle pagine più grandiose, Idomeneo è una rarità per le scene italiane forse anche a causa della sua complessità esecutiva e rappresentativa. Alla Fenice, dov’è andato in scena per la prima volta solo nel 1947 – ed era anche la prima italiana – mancava ad esempio da 22 anni. Inaugurazione speciale, dunque, per il rispetto musicale non meno che per l’eccezionalità tragica del momento, che ha tolto ogni lustrino alla serata inaugurale, dedicata alla vittima veneziana degli attacchi terroristici di Parigi. E se il sindaco di Venezia, Brugnaro, nel prendere la parola non ha evitato di stonare, dilungandosi fra l’altro sulla necessità del rilancio di Marghera come soluzione per la crisi economica (non ci è parso abbia toccato l’argomento grandi navi), l’emozione è stata palpabile nella doppia esecuzione degli Inni nazionali italiano e francese. Sintomo della tensione, il ripetuto annuncio al pubblico che al terz’atto ci sarebbero stati forti rumori in scena nel momento in cui l’Oracolo di Nettuno interviene a sciogliere la vicenda. Nell’opera ai tempi del terrore, anche l’uso dell’antica e teatralissima “macchina del tuono” può diventare un problema.

Grande protagonista musicale dell’evento è stato il direttore Jeffrey Tate, autentico trionfatore della serata. La sua comprensione della multiforme natura stilistica ed espressiva di Idomeneo si è manifestata in un’interpretazione di straordinaria profondità e ricchezza, a buon diritto da considerare come un vero e proprio riferimento esecutivo. Sotto la bacchetta precisa e puntigliosa del maestro inglese, l’orchestra della Fenice è parsa smagliante per precisione e sottigliezza nelle dinamiche e nei colori: condizione imprescindibile per svelare i tesori strumentali di Idomeneo. Per parte sua, Tate ha mantenuto un equilibrio espressivo squisito e rivelatore nella cura del fraseggio, nella scelta dei tempi. Così, il lirismo denso di implicazioni psicologiche, la drammaticità interiormente sofferta o coraggiosamente esternata, la tensione delle perorazioni corali fra i poli della tragicità e della festa, tipici della partitura, hanno avuto un risalto di teatrale immediatezza, nel quale la linea neoclassica dell’eleganza è parsa sempre bilanciata dalla nitida evidenza del turbamento patetico o della catastrofe drammatica.

Se lo spettacolo fosse stato all’altezza di questa eccezionale lucidità interpretativa, saremmo a parlare di un evento storico. Il regista Alessandro Talevi, invece, è parso troppo preso dalle proprie elucubrazioni sul senso traslato e attualizzato di quanto nell’opera avviene (di volta in volta cogliendovi l’essenza del dramma dei profughi, o la metafora della “rottamazione” in chiave mitologica – Idomeneo deve lasciare al giovane figlio Idamante le redini del regno) per riflettere più compiutamente su quanto Mozart fa del pur efficace libretto di Giambattista Varesco. E così, l’opera seria che più di tutte spinge sul versante della psicologia dei personaggi nel rapporto reciproco e di fronte agli eventi, schiudendo la porta alla drammaturgia dei caratteri, si riduce a rappresentazione per tesi teoriche. Mai davvero provocatoria, semmai talvolta un po’ forzata (prima scena, con la plateale divisione fra cretesi lascivi e superficiali e prigionieri troiani, miseri e disperati), ma talvolta anche decisamente fuorviante, come nel terzo atto, quando il divino quartetto dei personaggi principali ha come sfondo una piccola selva di abiti appesi, laceri, sporchi e insanguinati. Né bastano l’interessante resa del contesto marino, con rulli rotanti – antico macchinismo – a dare l’illusione visiva delle onde, o alcuni curiosi dettagli della reggia di Idomeneo, rappresentata come una biblioteca piena di reperti zoologici marini (le scene sono di Justin Arienti), per cambiare verso allo spettacolo e renderlo meno scialbo.

La compagnia di canto, vestita con costumi pseudo senza tempo, un po’ arcaici e un po’ da discoteca, firmati da Manuel Pedretti, si batte valorosamente. Sugli scudi sia l’Idomeneo del tenore Brenden Gunnell, espressività sofferta, emozionante carica interiore e stile tuttavia mai sopra le righe, sia l’Idamante del contralto Monica Bacelli, timbro seducente, grande proprietà ed eleganza nel fraseggio, perizia da belcantista anche nella resa – decisiva – dei recitativi accompagnati. Suadente ma forse anche troppo morbida Ilia è stata Ekaterina Sadovnikova, dalla linea di canto peraltro sempre duttile e accurata, mentre Michaela Kaune è risultata un’Elettra poco tagliente, mai davvero in grado di far scaturire emozione dall’aspra coloratura che Mozart ha riservato alla parte. Arbace è Anicio Zorzi Giustiniani, che regola il ruolo, peraltro rilevante,  senza soverchia nitidezza. Fra i comprimari, da segnalare il Gran Sacerdote di Krystian Adam e l’Oracolo di Michael Leibundgut.  Il coro istruito da Claudio Marino Moretti ha risposto al meglio all’impegno di un ruolo fondamentale.

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