Opera

Berlioz, amore nel giardino dell’Eden

La stagione del Carlo Felice di Genova inaugurata con "Béatrice et Bénédict", opera del 1862 mai rappresentata prima in Italia. Una fragile drammaturgia musicale - tratta da "Molto rumore per nulla" di Shakespeare - che la regia di Damiano Michieletto ha trasformato in una fantasiosa e non sempre chiarissima parabola sulle schermaglie sentimentali di due coppie, fra libertà spirituale e convenienze sociali. Positiva la compagnia di canto, con Cecilia Molinari e Julien Behr nei ruoli del titolo, ben guidati dal direttore d'orchestra Donato Renzetti

Il dibattito sull’utilità e il danno delle note di regia intorno alle rappresentazioni operistiche è destinato a non avere mai fine. C’è chi le condanna, perché troppo spesso questi testi sono la vetrina di ambizioni ermeneutiche astruse o superflue, o entrambe le cose. E c’è chi le apprezza e anzi le richiede per orientarsi nei meandri del “teatro di regia” del XXI secolo. Raramente il genere raggiunge la disarmante semplicità e sincerità sfoggiate da Damiano Michieletto al cospetto di Béatrice et Bénédict di Hector Berlioz, opera che viene allestita occasionalmente perfino in Francia, e che in Italia ha trovato la sua prima rappresentazione solo in occasione dell’inaugurazione della stagione del Teatro Carlo Felice di Genova, venerdì scorso. Cioè a 160 anni dalla prima andata in scena.

In una smilza paginetta pubblicata alla fine del programma di sala, il regista veneziano dapprima fa capire quanto la drammaturgia di quest’opéra-comique consista in una drastica riduzione della commedia di Shakespeare da cui deriva, Molto rumore per nulla: «Berlioz toglie tutti i cattivi, tutte le complicazioni che da essi derivano, tutte le trame secondarie». E poi espone con chiarezza la sua visione: si tratta di un’opera sulle schermaglie sentimentali di due coppie, una delle quali rimane volentieri dentro ai confini della concezione “socialmente utile” del matrimonio, mentre l’altra esprime un insolito spirito ribelle e quasi “eversivo” nei confronti dell’amore, che – secondo il regista – finisce per determinare la cifra drammaturgica peculiare di questa partitura. Ovvero quella su cui ha lavorato per realizzare lo spettacolo.

Naturalmente, non è affatto detto che conoscere prima le idee del regista, o scoprirle a spettacolo andato in scena, significhi automaticamente apprezzarle. Però, se non altro, sgombra il campo dai dubbi. Dopodiché, l’eterno dibattito torna prepotente: se c’è bisogno che un regista spieghi per iscritto non tanto il perché, ma proprio che cosa ha inteso mettere in scena, visto che assistendo allo spettacolo non si è capito se non in minima parte, non ci sono note di regia che tengano. E infatti, al calar della tela, il dissenso nei confronti dei responsabili dello spettacolo di Genova è stato evidente, anche se soverchiato dall’incondizionata approvazione per tutto il resto, e da parte di molti pure per lo spettacolo.

Un momento del finale di “Béatrice et Bénédict” al teatro Carlo Felice di Genova

Il racconto di Béatrice et Bénédict secondo Damiano Michieletto (coproduzione con l’Opéra di Lione, scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca, coreografia di Chiara Vecchi, luci di Alessandro Carletti) si svolge come sempre in un presente non meglio determinato ma non proprio così vicino, visto che il generale impiego in scena di mezzi per la registrazione (registratori, cuffie e una selva di microfoni sorretti da vistosi supporti) risale all’epoca predigitale e fa ampio uso di nastri magnetici. Il responsabile di queste prese di suono, che si vede affaccendato fin dall’inizio fra coristi e controllo del suono, è il personaggio comico della storia, il musico Somarone (nomen omen), invenzione solo berlioziana.

Il confronto-scontro fra le coppie avviene in uno spazio spesso fascinoso sia per la sua geometrica e monocromatica essenzialità (la tinta dominante è il bianco) sia per l’inopinata efficacia delle scene in cui a un certo punto appare un vero e proprio giardino dell’Eden. Destinato peraltro a essere distrutto nel “colpo di teatro” dello spettacolo, quando le piante tropicali lasciano il posto a una sorta di prigione, rappresentata da un’altissima griglia sulla quale vanamente i figuranti si arrampicano cercando la fuga.

La coppia meno problematica, costituita da Claudio e Héro, non s’inoltra mai nel giardino primordiale che è invece il luogo in cui si scoprono e si riconoscono i protagonisti in titolo. Il loro “doppio” sono due mimi che rappresentano Adamo ed Eva (Alessandro Percuoco e Miryam Tomè) e che si aggirano nudi come secondo la Bibbia sono stati creati. Saranno rivestiti solo a fatica dai rappresentanti della “società civile”, essendo evidentemente questo un passaggio da loro considerato di civiltà solo apparente, meritevole di decisa resistenza.

Quanto Bénédict sia un carattere particolare si capisce dal fatto che è sempre in tuta mimetica, pronto a confronti anche aspri con l’autorità costituita (il generale Pedro e il governatore Léonato) e che ha per amico un simpatico scimpanzè. Il primate si aggira a sorpresa sulla scena in varie occasioni (applauditissimo alla fine il mimo Amedeo Podda) e viene difeso anche spianando la pistola. Alla fine, Claudio e Héro finiranno metaforicamente ingabbiati nel matrimonio – sia pure in eleganti cubi di vetro – mentre i protagonisti si accetteranno in piena libertà, senza rinunciare ai loro dubbi e alle asprezze del reciproco confronto.

Al cospetto di una drammaturgia evanescente come quella dell’opera di Berlioz, nella quale di fatto poco o nulla accade tranne alcuni ingenui e scoperti  stratagemmi, Michieletto ha dunque premuto a fondo il pedale della fantasia, peraltro motivata dalla linea scelta, che fa delle disquisizioni sulla natura dell’amore una questione quasi politica, comunque a forte connotazione sociale, se si vuole perfino filosofica, attenuata solo dalla dimensione favolistica di tutto il racconto.

Julien Behr, Bénédict, con il mimo Amedeo Podda

Dire che ogni cosa fosse chiara senza avere letto le spiegazioni sarebbe azzardato. E poi lo spettacolo non si occupa più di tanto di sottolineare quanto di seducente è sparso in una partitura diseguale ma non priva di pepite lucenti. Fra queste bisognerà citare almeno il Notturno fra Héro e la sua confidente Ursule, dal clima soave e quasi onirico, che sarebbe il finale del primo atto ma in questo allestimento diventa la prima scena del secondo, probabilmente per preparare il colpo di teatro sopra descritto. Ne discende una forzatura della continuità drammaturgica immaginata da Berlioz, visto che il numero musicale di apertura del secondo atto dovrebbe essere un Coro di bevitori. Il fatto è che Michieletto è troppo impegnato a mettere in bell’ordine il carico di metafore e simbolismi che legge nella partitura, e finisce per perdere di vista la leggerezza un po’ ironica, talvolta trasognata, solo poche volte francamente comica, che dà la tinta all’ultimo lavoro per il teatro di Berlioz.

Di tutto ciò, peraltro, si è occupato assai bene dal podio Donato Renzetti, protagonista di un’interpretazione all’insegna proprio dell’ironia e di un’eleganza molto “alla francese”, fatta di colori multiformi e seducenti, di un fraseggio morbido e pronto a dialogare con le introspettive linee vocali disegnate da Berlioz, particolarmente seducenti quando la tinta espressiva è patetica. La compagnia di canto, equilibrata e convincente, ha ben assecondato il direttore, mettendo in vetrina voci interessanti come quella di Cecilia Molinari, Béatrice irruente eppure sempre dentro a una vocalità tutto sommato di raffinata stilizzazione, e di Julien Behr, che ha offerto di Bénédict una caratterizzazione incisiva, ben controllata e di forte suggestione introspettiva, specialmente nel Rondò in questo spettacolo collocato alla fine del primo atto. Bene anche Benedetta Torre, una Héro di forte propensione lirica, che ha duettato in maniera seducente sia con Eve-Maud Hubeaux, Ursule dal caldo timbro mezzosopranile, che con Yoann Dubruque, un Claudio di ricca espressività sentimentale. Un sicuro Nicola Ulivieri si è ben disimpegnato nel ruolo di Pedro, mentre quello di Léonato si è giovato della misura di Gérald Robert-Tissot. Somarone era Ivan Thirion, molto indaffarato essendo quasi sempre in scena, grottesco come si conveniva quando si è trattato di cantare. Preciso e partecipe il coro della Fondazione genovese, istruito da Claudio Marino Moretti.

Julien Behr e Cecilia Molinari nel secondo atto di “Béatrice et Bénédict”

Pubblicato su

Condividi questo articolo:
Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email