Opera

Mascagni e de Falla, la difficile convivenza

Il tema d’amore fra mistero e tradimento, passione e violenza, esaltazione e morte. Bisogna riconoscere quanto meno l’originalità all’idea del coreografo veronese Renato Zanella, che per la stagione della Fondazione Arena ha congegnato al Teatro Filarmonico di Verona un inedito spettacolo coreografico-operistico, risolvendo con il ricorso a un balletto di Manuel de Falla il sempiterno problema dell’abbinamento con Cavalleria Rusticana per “fare serata”.

Zanella sente echi e rimandi fra il corrusco atto unico di Mascagni, tumultuosa esplosione del Verismo, che avrebbe avuto in sorte di essere più gusto che stile (e mai più avrebbe avuto, se non nel quasi coevo Pagliacci, simile evidenza programmatica) e la “gitaneria” El amor brujo, composta mentre in Europa deflagrava la Grande Guerra e contraddistinta da grande popolarità anche e soprattutto in versione sinfonica (per non parlare della gettonatissima trascrizione pianistica approntata dallo stesso autore spagnolo).

Nell’uno e nell’altro caso, l’amore è stregoneria o incubo che dir si voglia, ma molto diversi sono i presupposti e le soluzioni. La Candela di Falla si libera del fantasma del marito e può abbandonarsi a un nuovo amore in capo a una vicenda andalusa dalle tinte notturne, misteriose e inquietanti, musicalmente irrorata da vitalissime, affascinanti iniezioni “etniche”. La Santuzza di Mascagni, nella Sicilia solare e arcaica dipinta dalla penna di Giovanni Verga, si consegna per sempre alla disperazione con la delazione. È incapace infatti di sopportare che l’uomo che l’ha sedotta e abbandonata le preferisca la bellezza maliziosa della moglie di un altro e la sua spiata innesca il vero squarcio di vita vissuta della storiaccia, la mortale resa dei conti in un duello rusticano.

Il regista-coreografo è convinto che esista, invece, una qualche analogia fra il personaggio di Candela e quello di Lola, tanto è vero che affida alla stessa cantante che interpreta il celebre stornello mascagnano (“Fior di giaggiolo”) anche alcune delle canzoni che intarsiano El amor brujo, peraltro proposto in una versione tagliata (mancano fra l’altro gli “Scongiuri per riconquistare un amore perduto”).

Per quanto fusi in uno spettacolo senza soluzione di continuità, anche scenograficamente omogeneo (l’apparato fisso, disegnato come i costumi di impronta primo Novecento da Leila Fteita, è costituito da un grande ulivo e da rovine di un tempio antico; quinte mobili scorrono a delineare muri scrostati), balletto e opera vanno in realtà in direzioni ben diverse. Né bastano l’impronta asciutta e antiretorica della regia o quella classicheggiante e spesso astratta della coreografia a creare un “fil rouge” davvero plausibile, del resto escluso dalla radicale diversità dei linguaggi musicali. Rispetto ai quali la preferenza non può non andare alla straordinaria ricchezza evocativa di Falla, un autore di autentica dimensione europea, pur nel rispetto per la fluente vena melodica e l’intensità espressiva congegnate da Mascagni.

Quest’ultimo, del resto, viene inaspettatamente “tradito” alla fine, quando la regia ha la bella pensata di portare in scena il duello fra Turiddu e Alfio, riducendo a banale “didascalia” di quanto si è appena visto la formidabile drammaticità dell’annuncio delle donne del paese, “gridando da molto lontano”: «Hanno ammazzato compare Turiddu!».

Se il corpo di ballo della Fondazione Arena (di cui lo stesso Zanella è il direttore) e i solisti si propongono nella prima parte senza mistero e con poca passione, dando vita a un’edizione compassata e per certi aspetti quasi “denaturata” del balletto di Manuel de Falla, miglior esito assicura alla partitura di Mascagni una compagnia di canto piuttosto interessante. Spicca la Santuzza di Ildiko Komlósi, vocalmente matura e misurata, capace di buone accensioni drammatiche e mai propensa allo sfogo veristico fine a se stesso. Voce interessante sciorina Yusif Eyvazov, alla cui linea di canto molto gioverebbe peraltro qualche maggiore dettaglio, oltre lo squillo potente e in genere ben timbrato, e anche Sebastian Catana si fa valere come Alfio, fraseggiando con efficacia pari alla pienezza del colore. Di interiore drammaticità la Mamma Lucia dell’esperta, Milena Josipovic; spumeggiante come si conviene la Lola di Clarissa Leonardi, assai meno a suo agio negli accenti gitani di Candela.

Dal podio, Jader Bignamini preferisce quasi sempre una via di mezzo che spenge le tensioni interiori disegnate da Falla così come le esteriori passioni scolpite da Mascagni. Queste ultime, in particolare, dovrebbero andare oltre l’equilibrio del fraseggio, raggiungendo una vivezza di tempi, di colori e dinamiche che il giovane direttore ha quasi sempre mancato, finendo per delineare una Cavalleria manierata e niente più che al trotto, mai al galoppo.

 

 

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