Per tutto il primo atto, il Principe Ignoto si muove in scena con un grande rospo sulla schiena, a mo’ di zaino. Se ne libera quando finalmente decide di suonare il gong per candidarsi a sposare la gelida principessa Turandot, assetata del sangue dei suoi pretendenti, della quale si è perdutamente innamorato solo scorgendola da lontano. E chissà quale particolare significato assume questa subitanea umanizzazione, nello spettacolo firmato dell’artista dissidente cinese Ai Weiwei all’Opera di Roma. Che poi questo non significa che Calaf da quel momento ci venga mostrato come un adulto: e sennò, come interpretare i mattoncini Lego che fino alla fine gli adornano i capelli?
Il discusso allestimento dell’ultima opera di Puccini, integralmente firmato da Weiwei (regia, scene, costumi e video), è una sorta di installazione-kolossal – dai costi intuitivamente assai elevati – nella quale la tecnologia sposa la fantasia dell’artista lanciata al galoppo e si incrocia con le sue irriducibili e spesso radicali posizioni ideologiche e politiche. Il risultato è per molti aspetti sconcertante: tutto è sovraccarico, visivamente spesso di grande impatto ma raramente collegato alla drammaturgia pucciniana, o anche semplicemente alla favola da cui l’opera deriva. In qualche momento, francamente confuso.
Il “j’accuse” contro il “potere millenario” da parte dell’artista perseguitato nel suo Paese si manifesta anche con il sarcasmo. Alla fine del secondo atto, dopo avere cantato parole da culto della personalità, (“Diecimila anni al nostro imperatore / Luce, re di tutto il mondo”), la folla festante alza le braccia e mostra il dito medio. Ma la denuncia politica passa soprattutto per le immagini che scorrono incessantemente sul vasto schermo in fondo alla scena del Costanzi. Da quelle terribilmente realistiche di distruzioni missilistiche e bombardamenti, battaglie, tumulti repressi con violenza, oppressione e prevaricazione dell’uomo sull’uomo, disperazione o annichilimento da pandemia, a quelle non meno inquietanti degli aspetti più nefasti della civiltà della globalizzazione e dello “sviluppo infinito”.
Nell’affastellamento di queste proiezioni, un certo ordine tuttavia in qualche modo si nota, se non altro nelle scelte di linguaggio. Il primo atto è caratterizzato dai video reportage. Il secondo è dominato dalle forme e dagli oggetti inventati dallo stesso Weiwei, comunque relativi a simboli culturali e/o bellici, che si affollano incessantemente come in una sorta di caleidoscopio. Il terzo passa alla “graphic novel”: disegni che raccontano storie e mostrano situazioni, non necessariamente animati.

Quando si libera dalla pulsione all’accumulo di mille segni culturali e politici, il linguaggio video assume peraltro una pregnanza improvvisamente rivelatoria. Accade nella prima parte del secondo atto, durante la scena con i tre ministri Ping, Pong e Pang. A un certo punto, essi cantano la nostalgia per la serenità dei loro idilliaci luoghi d’origine (“Ho una casa nell’Honan / con il suo laghetto blu / tutto cinto di bambù”) e Ai Weiwei colpisce l’immaginario dello spettatore rovesciando il concetto di esotismo e di lontananza: appaiono video tranquilli e in certo modo “anticati” – anche solo per il fatto di essere senza presenze umane – di Venezia e di Parigi.
Un altro e decisivo segno di questo controverso spettacolo, peraltro destinato a rimanere un caso isolato (a meno che l’artista cinese non cambi idea sulla sua proclamata estraneità all’opera), consiste nei costumi. Ad essi e in particolare alla straordinaria fantasia dei copricapi, realizzati come vere e proprie piccole sculture evocative in materiali semplici, è affidata, ad esempio, la frequente definizione zoomorfica di personaggi e figuranti. Oltre al rospo-Calaf, abbiamo una Turandot-tarantola (magari scontato, ma comunque suggestivo) che a lungo appare come una sorta di crisalide bianca e solo alla fine avrà il temibile aracnide sopra la testa. E poi insetti e mammiferi più o meno selvatici – conigli, maiali, cani, gatti, topi, tori. I torturatori (numerosi nella favola) hanno carapace e chele da crostacei. Gli abiti dei figuranti e del coro sono diversificati in maniera minuziosa: nessuno o quasi è vestito come un altro e c’è un po’ di tutto: tenute da film catastrofico o distopico, o da lavoro, o da tempo libero, con stili che attraversano i secoli.
Va sottolineato, peraltro, anche per mettere a fuoco meglio lo spettacolo, che quella proposta al Costanzi era la Turandot incompiuta e senza lieto fine lasciata da Puccini: il sipario cala definitivamente dopo la scena dolcissima e straziante della morte di Liù, vero e proprio “finale ultimo” del melodramma di tradizione. È noto che il compositore toscano, morto il 29 novembre 1924, non arrivò a risolvere musicalmente e drammaturgicamente l’improvvisa positiva evoluzione del rapporto impossibile fra Turandot e il principe che ha sciolto i suoi enigmi e non completò il lavoro. Oggi nella maggior parte dei casi si utilizzano i finali postumi realizzati negli anni Venti da Franco Alfano o nel 2001 da Luciano Berio, mentre l’esecuzione della musica pucciniana senza aggiunte è abbastanza infrequente.
Sul podio è salita Oksana Lyniv, l’allieva ucraina di Kiril Petrenko, che è ormai bacchetta affermata a livello internazionale e oggi fervida sostenitrice della causa del suo Paese invaso dalla Russia. La sua lettura di Turandot è parsa all’ascolto su Raiplay allo stesso tempo analitica e di grande efficacia espressiva. Si sono colti i dettagli di una scrittura “sinfonica” nella quale è chiaro quanto Puccini fosse consapevole degli sviluppi musicali della modernità, negli anni Venti del Novecento. E si sono apprezzate le scelte coloristiche – cui ha ben risposto l’orchestra dell’Opera di Roma – la tensione del fraseggio, la teatralità delle dinamiche. Peccato che la compagnia di canto non sia parsa del tutto all’altezza, dal punto di vista musicale, della direttrice. Oksana Dyka è stata una Turandot certo potente ma di colore vocale e di tenuta nella zona alta della tessitura mai davvero ben controllati, pur tenendo conto della difficoltà della parte. E con una pronuncia italiana non sempre impeccabile. Debuttante nel ruolo, il tenore americano Michael Fabiano se l’è cavata meglio, privilegiando con prudenza il versante lirico a quello drammatico. Assai bene invece Francesca Dotto, una Liù dolcissima e sempre padrona delle mezze voci con una linea di canto morbida e accattivante. Efficaci i tre ministri, Alessio Verna (Ping), Enrico Iviglia (Pang) e Pietro Picone (Pong), che la regia giustamente ha evitato di trasformare in macchiette, e convincente anche Antonio Di Matteo, un Timur dolente e sconsolato. A posto l’Imperatore di Rodrigo Ortiz, non sempre lucido il Mandarino di Andrii Ganchuk. Da elogiare il coro istruito da Roberto Gabbiani: Ai Weiwei non lo ha certo agevolato, facendolo cantare in situazioni e posizioni a dir poco complicate, ma la sua prova è stata comunque apprezzabile.
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