Concerti

Alexander Gadjiev, un menù pianistico di “assaggini”

Il giovane interprete goriziano ha debuttato alla Società del Quartetto di Vicenza con un recital suddiviso fra sei autori, a loro volta variamente spezzettati, da Beethoven (quattro delle sei Bagatelle op. 126) a Bartók ("All'aria aperta"), da Chopin (tre Mazurche op. 59) a quattro dei dodici Préludes di Debussy, libro secondo. Il meglio con gli autunnali "Gesänge der Frühe" di Schumann, poi conclusione virtuosistica tutta esteriorità con la mediocre seconda Sonata di Rachmaninov

Per la sua prima volta sul palcoscenico della Società del Quartetto di Vicenza (Ridotto del Teatro Comunale: non il luogo più adatto per fare e sentire musica, date le caratteristiche acustiche e ambientali), il pianista trentaquattrenne Alexander Gadjiev ha scelto un programma singolarmente inattuale, non tanto per la scelta dei compositori ma per la sostanziale frammentarietà delle proposte. Questione di gusti, beninteso, ma raramente l’autore di queste note ha avuto l’occasione di ascoltare un programma con sei compositori diversi, diventati sette al momento dei bis. La logica dei “piccoli pezzi” era dominante, ma biasimata dalla critica più accorta, in anni ormai lontani, e viene quindi il sospetto che quella di Gadjiev, classe 1991, sia stata una scelta volutamente controcorrente, nell’epoca in cui ormai gli impaginati dei recital tendono sempre di più al saggio monografico, o comunque a percorsi accuratamente impaginati attraverso prospettive stilistiche e storiche attentamente coordinate

Nel caso dell’interprete goriziano, la cronologia delle proposte era iscritta nell’arco di un secolo: è questo il tempo che separa le Bagatelle op. 126 di Beethoven (1824) dalla breve quanto fondamentale Suite All’aria aperta di Béla Bartók (1926). In questo spazio, rientrava tutto il resto: le tre Mazurche op. 59 di Chopin (1845); il secondo libro dei Préludes di Debussy (1910-12); l’ultima composizione pianistica lasciata da Robert Schumann, i Gesänge der Frühe op. 133, scritti nell’ottobre del 1853, pochi mesi prima della crisi che portò al ricovero in manicomio del compositore; la seconda Sonata op. 36 di Rachmaninov, datata 1913. Un arco stilistico così composito da rischiare di essere dispersivo.

Si è passati dal tardo stile di Beethoven (le Bagatelle op. 126 vengono dopo le Diabelli e sono il suo ultimo pezzo pubblicato per la tastiera) alle suggestioni moderniste di Debussy. Nell’uno e nell’altro caso, proposte secondo una logica di “assaggi” che ha impedito comunque di ascoltare le raccolte nella loro interezza: non tutte sei le Bagatelle, ma solo quattro, e pure quattro dei dodici Préludes che compongono il secondo libro (Brouillards, Ondine, La terrasse des audiences du clair de lune, Feux d’artifice). Se si aggiunge che nella vasta e articolata produzione pianistica di Chopin le tre Mazurche op. 59 non figurano fra le composizioni più seducenti, si ha il quadro di una frammentazione che non ha giovato nemmeno alla comprensione del pianismo di Gadjiev.

Nella prima parte del concerto, l’unico brano eseguito integralmente, oltre alla trilogia delle Mazurche, è stato quello di Bartók, proposto con tellurica energia espressionista nel primo e nell’ultimo dei cinque pezzi in cui si articola la Suite e con un’apprezzabile ricerca di atmosfere straniate nella pagina cruciale della raccolta, Musica notturna, superamento del simbolismo debussiano ascoltato per sommi capi poco prima, affermazione della complessità e vastità dell’universo espressivo proprio del patrimonio musicale popolare ungherese.

Alexander Gadjiev è “ambasciatore culturale” di Gorizia-Nova Gorica, capitale europea della cultura 2025

In Chopin e in Debussy è emersa specialmente la superiore padronanza tecnica del pianista goriziano, che controlla con sovrana facilità il tocco e l’agilità, ma non delinea particolari sfumature dinamiche in un eloquio espressivamente sempre controllato, certo, ma anche sostanzialmente distaccato, fascinoso per la riuscita della sfida esecutiva e non per la sottigliezza della dimensione coloristica. Così, il suo fraseggio ha reso l’ultimo Beethoven quasi anonimo e un po’ troppo orientato su coordinate genericamente romantiche; ha tolto a Chopin il pathos sottile che esiste anche dentro al mondo solo apparentemente spensierato delle Mazurche; ha disegnato Debussy con agogiche coinvolgenti, sempre tecnicamente ben padroneggiate, senza però che ad esse corrispondesse una adeguata forza evocativa della tavolozza timbrica.

Il momento più significativo del recital di Gadjiev, a conti fatti, è stata l’esecuzione di Schumann: la poesia un po’ straniata, insieme dolorosa e rarefatta, delle cinque “Canzoni del mattino” è stata delineata con partecipazione dolente, introspettiva, ricca di dettagli nel colore, di sfumature nel fraseggio. Puntuale, infine, l’approccio alla Sonata op. 36 di Rachmaninov, esecuzione tecnicamente molto agguerrita di un lavoro senza particolare qualità, ma significativo di quella che – secondo lo storico Piero Rattalino – era la cifra caratterizzante delle composizioni per pianoforte solo dell’autore russo: l’abile organizzazione della percezione sonora, realizzata da strumentatore di buona originalità, ma non da inventore di musica. Gadjiev ha sottolineato accortamente questo aspetto, dando vita a un’interpretazione irruente ed estroversa, con sonorità magniloquenti amplificate dal gioco del pedale di risonanza, esuberante forza e precisione nei passaggi acrobatici, specie dell’ultimo movimento.

Pubblico numeroso, accoglienze calorose specie alla fine della Sonata di Rachmaninov, e doppio bis. Il primo ha allargato a cinque il numero dei Préludes di Debussy proposti nella serata, con l’esecuzione, sempre dal secondo libro, di Bruyères. L’ultimo fuori programma ha aggiunto il nome di Skrjabin al menù di questo composito recital, con le corrusche e un po’ retoriche atmosfere del popolare Étude patetique op. 8 n. 12.

Foto © Colorfoto Vicenza – Francesco Dalla Pozza

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