Il santuario della psicosi di Elettra è un elegante salotto modernista, da qualche parte fra la Vienna di Hofmannsthal e la Germania di Richard Strauss. Sopra al caminetto campeggia il ritratto del padre Agamennone, trucidato dalla madre Clitennestra e dall’amante di lei, Egisto, al ritorno dalla guerra. Nel dipinto l’uomo è vestito da comandante in capo dell’esercito, avvolto nel mantello militare, con tanto di elmo chiodato in testa, alla Bismarck. L’uno e l’altro rivestono un manichino lì a fianco, pronti per l’uso morboso da parte della figlia feroce e disperata, che vive solo per vedere morti la genitrice e il suo ganzo. Sotto al ritratto – tanto perché sia chiaro che qui siamo nel mondo degli Studi sull’isteria di Sigmund Freud, e che il mito tragico degli Atridi è soltanto un punto di partenza – lei ha accumulato i suoi giocattoli di bambina: un orsacchiotto, una bambola… Oggetti sacrificati sull’altare del padre perduto. Più tardi si scoprirà che l’arma del delitto, la scure con la quale Agamennone è stato scannato mentre faceva il bagno, è conservata in una cassetta celata proprio nel focolare.
La reggia di Clitennestra, che cerca di scoprire come liberarsi dei sogni che incessantemente la molestano, ed è disposta a far scorrere altro sangue pur di riuscirci, è dietro a una tenda bianca sullo sfondo, che lascia intravvedere in trasparenza figure o scene (all’inizio, l’omicidio da cui tutto prende le mosse) e solo a tratti si alza, rivelando una gradinata e un trono sulla sommità. E soprattutto, una piccola folla di cortigiani che chiariscono – a rappresentazione inoltrata – l’epoca in cui lo spettacolo si svolge. Sono personaggi travestiti, bizzarri, di genere incerto, caratteristici di un “kabarett” berlinese all’epoca del tramonto della Repubblica di Weimar. E dunque, cronologicamente lontano dal 1909 del debutto dell’opera straussiana a Dresda, prima tappa della prodigiosa ventennale collaborazione del musicista bavarese con Hofmannsthal. E lontano anche dal tragico sfacelo della Grande Guerra. Nell’imminenza, invece, dalla salita al potere del nazismo.
La narrazione scelta da Yamal das Irmich, regista della nuova produzione di Elektra al teatro Filarmonico di Verona, punta sulla modernità della tragedia di Hofmannsthal non meno che della partitura straussiana. Scelta comprensibile, visto che questa fondamentale “literaturoper” distilla in maniera raffinata quanto stordente sia la visione del letterato viennese – che “cancella” Micene e la classicità per tuffare chi assiste nel mondo magmatico di una psiche dilaniata – sia la straordinaria potenza della drammaturgia musicale di Strauss, qui ancora più efficace che nella scandalosa Salomè di quattro anni precedente. E scelta risolta per larga parte dello spettacolo con buona efficacia nella recitazione e nella gestualità “primaria”, dentro alle scene allo stesso tempo algide e coinvolgenti di Alessia Colosso, attribuendo ai costumi disegnati da Eleonora Nascimbeni una valenza non solo “decorativa” ma anche e soprattutto psichica, utilizzando le luci di Fiammetta Baldiserri in maniera asciutta, cronistica e allusiva in eguale misura.

E tuttavia, un conto è inserire la rivisitazione del mito greco, realizzata con anticipatoria visionarietà espressionista (in seguito largamente abiurata) da Hofmannsthal e Strauss, nei decenni successivi all’epoca in cui l’opera vide la luce; e un altro conto è collocare i protagonisti in una storia che non appartiene loro. Invece, a partire dall’apparizione di Oreste (alter ego di Agamennone in una concezione patriarcale opprimente all’epoca del mito non meno che nella Vienna degli autori) la lettura di Yamal das Irmich delinea una vicenda collegata all’avvento al potere di Hitler. La vittoria di Elettra (il massacro di Clitennestra e di Egisto da parte di Oreste) finisce quindi per essere sovrastata dalla propaganda del nuovo regime. Sopra al ritratto di Agamennone viene appiccicato il celebre manifesto “Schluss jetzt” (dal titolo di un discorso tenuto da Goebbels a Berlino nel 1932: “Ora basta, votate Hitler”), solo emendato del nome del dittatore, mentre la reggia è invasa dalle camicie brune, una delle quali molesta la tenera Crisotemide, sorella della folle Elettra, che aspira solo a una vita nutrita di semplici sentimenti in una famiglia finalmente normale. Alla fine, Oreste appare anch’egli in divisa da comandante delle SA e così abbigliato si siede sul trono che fu di sua madre e prima di suo padre.
Il vero leader delle SA, Ernst Röhm, fu fatto assassinare da Hitler nel 1934, durante la famigerata “Notte dei lunghi coltelli”: era un personaggio con il quale Richard Strauss s’intratteneva cordialmente, come si vede in una famosa fotografia del 1933. E del resto, la condiscendenza del compositore nei confronti del nazismo, pur all’interno di relazioni personali non facili e in qualche caso problematiche, è storia ben più della narrazione registica un po’ pretestuosa, per quanto non priva d’interesse, di questa Elektra, capolavoro nato molto prima della follia autoritaria che sconvolse il mondo tedesco.
Sul piano musicale, l’allestimento (arrivato a 22 anni di distanza dalla prima assoluta veronese del 2003) presentava un elemento di sicuro interesse nell’adozione – per la prima volta in Italia – della versione orchestrale realizzata nel 2018 da Richard Dünser, ultima “riduzione” in ordine di tempo per una partitura che nell’originale prevede un organico enorme (orchestra con 103 strumentisti), il cui rispetto la renderebbe sostanzialmente ineseguibile in teatri tradizionali all’italiana. Il lavoro è parso rilevante: permane – in dimensioni evidentemente diverse ma ben delineate – il “muro di suono” spesso edificato da Strauss. Ma soprattutto si conserva la ricchezza timbrica differenziata e articolatissima disegnata dal compositore, elemento drammaturgico primario in un discorso musicale che non vive solo sul cromatismo di ascendenza wagneriana, ma si spinge a soluzioni politonali di grandissimo impatto espressivo.
La rovente materia musicale è stata maneggiata con l’attenzione e l’energia necessarie da Michael Balke, che ha ottenuto una risposta di notevole efficacia dall’orchestra areniana e ha disegnato con buona efficacia la complessa trama espressiva della partitura, delineando le “morbidezze” liriche (presenti nei dialoghi fra Elettra e Crisotemi e fra la protagonista e Oreste) senza mai perdere di vista la tensione complessiva, e incidendo con efficacia i passaggi più convulsi.
Di buon livello la compagnia di canto. Sugli scudi Lise Lindstrom, un’Elettra vocalmente fremente e disperata, carica di nostalgia e di rabbia, anche attorialmente sempre in totale identificazione nel personaggio. Al suo fianco, bene la dolente Crisotemide di Soula Parassidis, dal lirismo stilisticamente ben delineato, e la Clitennestra di Anna Maria Chiuri, beffarda quanto animata da una disperazione di fondo evidente nel coloro e nel fraseggio. Oreste era Thomas Tatzl, voce ricca e adeguatamente espressiva, Egisto Peter Tantsis, caricaturale come volevano gli autori non meno che il regista. Il folto gruppi dei comprimari, fra ancelle, servi e figure secondarie di vario tipo si è mosso e si è proposto con impegno apprezzabile. Li citiamo nell’ordine della locandina, anche per dare l’idea dell’impegno artistico richiesto da Elektra: Nicolò Donini, Anna Cimmarrusti, Veronica Marini, Leonardo Cortellazzi, Stefano Rinaldi Miliani, Raffaella Lintl, Lucia Cervoni, Marzia Marzo, Anna Werle, Francesca Maionchi, Manuela Cucuccio. Anche loro sono stati accomunati nelle calorose accoglienze destinate da un pubblico discretamente numeroso ai protagonisti principali dello spettacolo e del suo allestimento.
Foto © Ennevifoto – Fondazione Arena di Verona
