Saggi

Luigi Nono, l’odissea del suono militante

Esponente di spicco della Nuova Musica (quella nata ai Corsi Estivi di Darmstadt negli anni seguenti la Seconda guerra mondiale) il compositore veneziano nato nel 1924 e scomparso nel 1990 è stato protagonista di un percorso creativo nel quale il rigore dell'avanguardia non è mai prevalso sull'esigenza poetica. Sempre nella nome della sua sincera adesione politica alla sinistra, che fino agli anni Ottanta è stata programmatica e molto pratica, per poi diventare più filosoficamente connotata, come ha dimostrato anche la recente riproposizione del suo "Prometeo"

Il video risale al 1968, ma è stato pubblicato solo alla fine di luglio del 2023 sulla piattaforma YouTube. Si tratta di un’intervista a Luigi Nono condotta dal musicologo Alfred Andersch (e non da Carlo Piccardi come appare su YouTube). Le riprese si svolsero nello studio della casa alle Zattere dove il musicista veneziano era nato cent’anni fa, il 29 gennaio 1924 e il testo non appare nei due volumi dei suoi Scritti e colloqui (Ricordi-LIM, 2001). L’argomento principale della conversazione – nell’anno delle grandi proteste studentesche e dell’affermazione del movimentismo, in vari casi presto incubatore di violenza e terrorismo – è l’impegno politico del compositore attraverso la sua musica. Un impegno nato in chiave antifascista durante gli anni della guerra e quindi evoluto in una posizione che Nono, a quell’epoca artista “organico” alla classe operaia, iscritto al PCI fin dal 1952, definisce «lotta aperta per il socialismo e contro l’imperialismo e il neo-colonialismo americano».
«Dev’essere ben chiaro – afferma il musicista all’inizio – che l’intellettuale, il musicista d’avanguardia non può in nessun modo dipendere dai dollari americani». Di più, non dovrà partecipare ad attività di Fondazioni o Università americane, «perché sono sempre collegate con le attività della Cia e sempre quindi complici del genocidio culturale e politico che gli Stati Uniti oggi esercitano nel mondo…».
Entrando nel merito musicale, il compositore veneziano rivendica nei 18 minuti del video in bianco e nero l’unitarietà e l’originalità del suo linguaggio a prescindere dai contenuti politici che ciascuna composizione vuole trasmettere, la costante ricerca di una corrispondenza tra la fonetica dei testi scelti e la loro semantica, ovvero fra come “suonano” e cosa significano. La musica non è astratta e ha una funzione ben precisa, tanto più nell’epoca della decadenza della borghesia. Anche per essa valgono le tre domande di Sartre: bisogna chiedersi cosa scrivere, perché scrivere e per chi scrivere.
Nel suo vibrante “manifesto”, Nono rivendica l’apprezzamento del pubblico terzomondista e nei paesi del socialismo reale, da Cuba al Sudamerica e a Mosca, che secondo lui ascolta le sue opere per quello che sono, a prescindere dai suoi contenuti ideologici. L’obiettivo, conclude è superare il colonialismo culturale eurocentrico: una visione allo stesso tempo etica ed estetica, oltre che politicamente e ideologicamente connotata. Ernesto Che Guevara – e la cinepresa stacca sul suo manifesto appeso al muro – viene proclamato simbolo ed esempio di ciò che dovrà essere «l’uomo nuovo del nostro secolo e del secolo futuro».

Sette anni più tardi, nel febbraio 1975, durante una manifestazione-concerto organizzata dalla Federazione Giovanile Comunista al palasport di Roma, intitolata “Musica per la libertà”, Nono si sarebbe trovato nella necessità di misurarsi direttamente con l’incomprensione e l’ostilità del pubblico italiano nei confronti della sua musica. Fra l’altro in quel caso, a differenza di molte altre volte, pubblico ideologizzato, in teoria politicamente amico, ma comunque incapace di sintonizzarsi con il suo linguaggio musicale. Dopo avere raccontato un suo viaggio nel Portogallo della recente “Rivoluzione dei garofani”, il musicista propose l’ascolto di alcuni minuti di una sua importante composizione degli anni Cinquanta, Il canto sospeso per soli, coro e orchestra. Quasi subito partirono i fischi. In precedenza, i presenti (migliaia di persone) avevano acclamato gli Inti Illimani, applaudito cantautori impegnati come Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, Giovanna Marini e in quel momento aspettavano il jazz di Giorgio Gaslini, o le letture di Gian Maria Volontè. Nono affrontò a viso aperto la contestazione, con una perorazione che appare oggi evento di un’era remota: le apodittiche istanze culturali e politiche del musicista sfidano la nostra consapevolezza della loro fallacia e di ciò che è stato della storia e del mondo nel mezzo secolo che è seguito. Allora l’appello («Abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza e di tutte le risorse disponibili, se vogliamo raggiungere l’egemonia culturale della classe operaia») si rivelò vincente, almeno in quel contesto: il pubblico che di fronte alla complessa, ostica invenzione musicale di Nono aveva scatenato il dissenso, dopo le sue parole applaudì calorosamente.

Alla fine degli anni Ottanta, la caduta del Muro di Berlino avrebbe rappresentato icasticamente il definitivo crollo del comunismo, essendo già agli archivi del Novecento l’egemonia culturale della classe operaia. Sei mesi dopo quell’epocale punto di svolta, l’8 maggio 1990, Nono si sarebbe spento a 66 anni nella sua casa veneziana. Il musicista non ebbe quindi in sorte di conoscere – se non nei suoi prodromi – la presunta “fine della storia” e la metamorfosi liberista del terzomondismo nella cosiddetta globalizzazione, a sua volta oggi ormai drammaticamente in declino. E tuttavia, da almeno un decennio aveva dato vita al suo personale “riflusso”. Che poteva consistere – agli antipodi di quanto affermato nella video-intervista cui si è accennato – anche nel consenso a scrivere un brano da eseguire nel 1991 per il centenario della Carnegie Hall di New York (la circostanza è riportata in occasione della sua morte dal New York Times). Ma che soprattutto si era concretizzato in una serie di composizioni nelle quali la centralità del messaggio ideologico perde la sua presa e sfuma in una linea filosofica e culturale diversa, non necessariamente in contrasto con l’impegno precedente, ma comunque caratterizzata da una forte componente soggettiva, personale. Con un linguaggio musicale sempre improntato a una coerenza interiore per così dire “evolutiva”, esemplare nelle complesse vicende della Seconda Avanguardia.

Nono era diventato un esponente di spicco della Nuova Musica a 26 anni, nel 1950, quando pubblicò le Variazioni canoniche sulla serie dell’op. 41 di Schönberg per orchestra. Il brano fu eseguito per la prima volta nell’ambito dei Corsi Estivi di Darmstadt, fucina del movimento artistico più radicale del Novecento per tutto quel decennio e oltre. In quello stesso periodo, l’autore veneziano – che proveniva da studi musicali non regolari, ma aveva avuto come maestri i suoi concittadini Gian Francesco Malipiero e Bruno Maderna, oltre al direttore d’orchestra berlinese Hermann Scherchen – fu protagonista dei Corsi, prima come studente e poi anche come docente. Un percorso destinato a concludersi polemicamente nel 1960.
Nel gruppo di Darmstadt era l’unico a manifestare un impegno politico forte, pur se ancora musicalmente sottotraccia. Di fatto anche le Variazioni partivano da un pensiero libertario, visto che l’op. 41 di Schönberg, Ode a Napoleone (1942), ha come testo l’invettiva contro il tiranno scritta da Byron nel 1814. E le prove successive misero a fuoco la sua visione militante, dalle salde radici antifasciste, con sempre maggiore chiarezza, specialmente nei Tre epitaffi per Federico García Lorca (1951-53). In quegli anni, Nono iniziò progressivamente a sottrarsi allo strutturalismo, alla serializzazione integrale del discorso musicale, che era il dogma dei protagonisti di Darmstadt, per iniziare il viaggio nel suono che la sua musica avrebbe sempre perseguito, senza rifuggire da risultati almeno in parte “espressivi” e di vaga allusività melodica, che apparivano “irregolari” ai sacerdoti del radicalismo dopo Webern. Percorreva strade battute da pochi o da nessuno anche nella scelta dei testi, inserendo nelle sue composizioni autori come García Lorca e Neruda, Paul Éluard e Cesare Pavese in quanto poeta, fino a Giuseppe Ungaretti. Il capolavoro unanimemente riconosciuto di questa fase, dopo la già notevole prova di Incontri per 24 strumenti (1955), arrivò nel 1956 proprio con Il canto sospeso, il pezzo che sarebbe stato fischiato dai giovani comunisti nel 1975. Si tratta di una Cantata di ampie dimensioni, una sorta di dolente meditazione che in certo modo segue e conclude il tragico racconto testimoniale di Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg, risalente 1947.  Il legame con l’inventore della dodecafonia, scomparso nel 1951, non era solo musicale: nel 1955 il compositore veneziano ne aveva sposato la figlia, Nuria, oggi ancora fervida animatrice del fondamentale Archivio Luigi Nono da lei creato a Venezia.

Il canto sospeso si basa su testi provenienti da Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (fra i quali anche ebrei vittime della Shoah), un libro pubblicato da Einaudi nel 1954, con prefazione di Thomas Mann. L’exploit di Nono consiste nel fatto che riesce a dare un’inaudita dimensione poetica alla parola intesa come fonema multiforme, dotato di un significato complesso e profondo anche se il testo in quanto tale resta volutamente oscuro all’ascolto. Trovando una dimensione espressiva mai prima così efficace rispetto all’aridità della pratica “puntillista” lungo le cui coordinate si stava muovendo il serialismo integrale. Quest’opera rese il musicista veneziano uno dei grandi protagonisti dell’avanguardia europea, ma venne ben presto attaccata da Karlheinz Stockhausen: nell’estate del ’58, il musicista tedesco – trentenne guru della Nuova Musica – tenne a Darmstadt una conferenza intitolata Musica e linguaggio nella quale criticava Il canto sospeso proprio per l’incomprensibilità delle parole cantate dal coro, denunciandone la a-semanticità. L’anno seguente, Nono prendeva le distanze dai più recenti sviluppi della Seconda Avanguardia nella conferenza intitolata La presenza della storia nella musica di oggi, una critica alle teorie aleatorie nella scrittura musicale portate in Europa da John Cage e tenute in gran conto. Quindi, nel 1960, replicava all’ormai ex amico Stockhausen, con una puntigliosa e acuminata difesa del Canto sospeso nell’intervento intitolato Testo-musica-canto, fino alla stoccata definitiva: «È assurdo voler dedurre dal trattamento analitico della struttura che in questa maniera ne sia stato espulso il contenuto semantico del testo. La domanda perché per una composizione io abbia scelto proprio quel testo e non un altro non è più intelligente della domanda perché per pronunciare la parola “stupido” si utilizzano proprio le lettere s-t-u-p-i-d-o».

Luigi Nono e Karl-Heinz Stockhausen a Darmstadt nel 1957

L’incidente determinò uno spartiacque nella vicenda creativa di Nono. Darmstadt uscì dal suo orizzonte culturale e la cesura fu sottolineata anche dalla cessazione – di lì a poco – della collaborazione con l’editrice Ars Viva ispirata da Scherchen, ramo della importante casa Schott di Magonza, presso cui aveva fino a quel momento pubblicato i suoi lavori. In parallelo, il compositore veneziano da un lato accentuò l’impegno ideologico e militante del suo far musica, inevitabilmente soggetto a forti polemiche politiche; dall’altro cercò nuove strade per il suo linguaggio musicale, cominciando la lunga e mai più abbandonata frequentazione con le tecniche e i sistemi elettronici per la creazione, il controllo e la diffusione dei suoni.
Sul primo versante, il segno della “rottura” fu dato dalle clamorose contestazioni all’opera Intolleranza 1960, occasione nell’aprile del 1961 alla Fenice di gazzarre fra opposte fazioni politiche. Il musicista puntava a far rivivere il teatro rivoluzionario russo alla Mejerchol’d con una sorta di spettacolo “totale”. Tentativo solo in parte riuscito, nel quale è protagonista, in varie situazioni socialmente e politicamente “tipiche”, un lavoratore emigrato e oppresso. A parte i tempestosi dissensi fra il pubblico, l’opera fu accolta dalla critica con una certa freddezza. Le presunte concessioni di Nono a una sorta di realismo di stampo definito perfino verista – già intraviste da qualcuno negli ultimi tempi di Darmstadt – sarebbero state sottolineate anni più tardi anche da uno dei maggiori studiosi italiani della Nuova Musica, Mario Bortolotto, nel capitolo intitolato Le missioni di Nono del suo fondamentale saggio Fase seconda (Einaudi 1969, ripubblicato da Adelphi nel 2008).
Sull’altro versante, il lavoro allo Studio di Fonologia della Rai di Milano si rivelò determinante per la messa a fuoco di nuovi orizzonti sonori nei quali la voce conservava le istanze centrali tipiche in tanta parte della produzione di Nono, ma poteva essere affiancata ed “ampliata” dall’uso dei nastri magnetici preparati e dalla stessa amplificazione dell’esecuzione. Lo si nota in molti lavori fino alla metà degli Anni Settanta, pagine volte a realizzare forti appelli di giustizia sociale e di libertà, secondo la dottrina marxista, su testi provenienti da autori rivoluzionari di tutte le latitudini e di epoche diverse, da Fidel Castro al Che, da Marx a Rosa Luxemburg, da Brecht a Malcolm X, da Lenin a Gramsci. Sintesi e culmine di questa elaborazione musical-rivoluzionaria è Al gran sole carico d’amore, seconda opera di Nono commissionatagli dal Sovrintendente della Scala nei primi Settanta, Paolo Grassi. Il lavoro andò in scena al Teatro Lirico di Milano una prima volta nell’aprile 1975 e nella versione definitiva nel febbraio 1978. Dirigeva Claudio Abbado, la regia era di Jurij Ljubimov, fondatore del teatro della Taganka di Mosca, che solo dopo una complessa trattativa con il governo sovietico, e grazie all’intervento del segretario del PCI Enrico Berlinguer, era stato autorizzato a lasciare l’Unione Sovietica (ed era la prima volta che arrivava in Occidente). Anche in questo caso, due grandi vicende storiche (nella prima parte la Comune di Parigi, nella seconda la Rivoluzione russa del 1905) sono la cornice dentro alla quale trovano posto richiami a vicende più o meno attuali, dalla rivoluzione cubana alle proteste operaie a Torino negli anni Cinquanta. Il tutto con un linguaggio musicale che a sua volta offre una sorta di sommario delle riflessioni di Nono sulla vocalità, sugli elementi strutturali nel discorso musicale, sui rapporti armonici, sulla serialità, sul ruolo dell’elettronica: un grande affresco, un mare sonoro nel quale possono anche emergere – mai in funzione di semplice citazione – le allusioni al patrimonio musicale popolare dei movimenti rivoluzionari.
In quegli stessi anni Settanta, però, il compositore veneziano cominciava a mettere a fuoco un approccio diverso e nuovo, nel quale la figura dell’esecutore designato, spesso dedicatario della composizione, diventava centrale per l’elaborazione musicale. Fra gli esempi più rilevanti di questa tendenza ci sono le due pagine in cui l’arte di Maurizio Pollini è chiaramente elemento del processo compositivo. Si tratta sul versante politico di Como una ola de fuerza y luz (1972) per soprano, pianoforte, grande orchestra e nastro magnetico a quattro canali, epicedio in memoria del giovane sindacalista cileno Luciano Cruz, conosciuto dal compositore qualche anno prima e morto in maniera “strana”. E su quello intimo e personale di …sofferte onde serene… per pianoforte e nastro magnetico, scritto nel 1976 in un periodo luttuoso sia per la famiglia Nono che per la famiglia Pollini. In questo caso, un poetico e in effetti commovente modo di sublimare il dolore per la perdita di persone care, con una carica soggettiva che colpisce nella rifrazione fra l’esecuzione dal vivo e quella registrata, affidata allo stesso pianista.

L’arca ideata da Renzo Piano per la prima assoluta del Prometeo nel settembre del 1985

Già in una composizione molto significativa come quest’ultima si colgono i segnali della nuova e ultima fase di Luigi Nono, nella quale i valori dell’impegno politico scompaiono a favore di una dimensione personale di carattere speculativo. A partire dagli anni Ottanta, il linguaggio del compositore cerca nuove relazioni fra il suono e lo spazio in cui esso si sviluppa, con la sguardo volentieri rivolto alle antiche esperienze del fare musica, specialmente a Venezia. E trova nuovi spunti nella collaborazione, per i testi, di uno studioso pure veneziano di vent’anni più giovane, il filosofo Massimo Cacciari. Si schiudono orizzonti sonori inediti, anche in virtù dell’adozione di tecnologie elettroniche più sofisticate e aggiornate. Grazie alle sperimentazioni condotte nello studio della Fondazione Strobel a Friburgo, diventano fondamentali i “live electronics”, cioè la realizzazione di suoni artificiali in tempo reale durante l’esecuzione.
La svolta è preannunciata sul piano strumentale dalle rarefatte atmosfere del quartetto per archi Fragmente-Stille – An Diotima, 1980, nel quale il sottotesto di Hölderlin che correda la partitura è in realtà affidato al pensiero degli esecutori, che non devono pronunciarlo. È sottolineata dalle ardue ma affascinanti elucubrazioni armoniche e timbriche di A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili (1984), per orchestra, che fin dal titolo dichiara la volontà di affrontare mondi sonori inesplorati (e lo fa utilizzando la scrittura micro-intervallare intorno a due sole note). E trova la sua sintesi nel Prometeo, eseguito per la prima volta 40 anni fa, alla fine di settembre del 1984, nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Venezia.
Proprio questo vasto (due ore e 15 minuti) e cruciale snodo della musica italiana del secondo Novecento è stato riproposto su iniziativa dell’Archivio Storico della Biennale e dell’Archivio Luigi Nono, nei giorni del centenario della nascita, nello stesso luogo dove si tenne la prima esecuzione. A corredo, un convegno promosso dall’Istituto per la Musica della Fondazione Cini e il conclusivo incontro di studio a cura della stessa Biennale.

A San Lorenzo, oggi “Ocean Space”, naturalmente non c’era la prodigiosa “arca” lignea progettata da Renzo Piano e utilizzata anche nell’esecuzione del 1985 in un capannone dell’Ansaldo di Milano, struttura pensata per ospitare su livelli diversi sia gli esecutori che gli ascoltatori. È mancato quindi completamente l’aspetto di “installazione sonora” che la geniale creazione di Piano aveva contribuito in maniera decisiva a configurare, visto che tale non possono essere considerate le impalcature e i praticabili innalzati lungo le pareti della chiesa vuota, per ricavare lo spazio agli esecutori.
Nel Prometeo – “trapuntato” dai frammenti testuali in italiano, tedesco e greco antico che Cacciari ricavò da autori plurimi, da Eschilo a Walter Benjamin, da Esiodo a Hölderlin – l’invenzione di Nono delinea un universo parallelo del suono, un viaggio interstellare alla ricerca di “altri pensari musicali, altri spazi infiniti”, come scriveva il compositore nell’84 citando Giordano Bruno. Un problematico rovesciamento filosofico e fisiologico di senso rispetto alla natura e allo scopo dell’ascolto.
Esagerava Mario Bortolotto nella recensione alla prima assoluta (“L’Europeo”, 13 ottobre 1984, ora in Il viandante musicale, Adelphi, 2018) quando parlava di “adorazione del Nulla”, ma a quarant’anni di distanza questo lavoro risuona come la poetica testimonianza di una crisi irreversibile. Che non è tanto quella della militanza politica al tramonto, ma quella di una ricerca musicale ormai giunta alla quasi definitiva astrazione. Si “contempla”, ascoltando questo lavoro, una rarefazione che sembra prediligere il quasi inudibile, solo raramente addensata in grumi drammatici; si è chiamati a misurarsi con un linguaggio di libertà e difficoltà paritetiche: spesso effetto senza causa oltre il rigore estetico ed etico del compositore. Una sfida a chi ascolta, nella quale il proclamato ritorno alle origini (musica “spazializzata” a Venezia nel ‘500, musica antica delle sinagoghe) e la ricerca (micro-intervalli, quarti di tono, elettronica in tempo reale nella creazione e diffusione dei suoni) consentono momenti anche fascinosi ma rinchiusi in un’ardua quanto astratta dimensione speculativa. Per tutti questi motivi, il sottotitolo del Prometeo, “Tragedia dell’ascolto”, appare oggi non solo una raffinata sottigliezza estetica in cui la musica incrocia la filosofia e la letteratura, ma anche una sintomatica premonizione. Perché l’ascolto di cui parlava Luigi Nono sarebbe rimasto un’utopia, come gli ultimi 40 anni nella musica classica contemporanea si sono incaricati di dimostrare.
La realizzazione di questa complessa partitura, basata sull’edizione definitiva pubblicata da Ricordi nel 2017, è stata guidata da Marco Angius alla testa dell’Orchestra di Padova e del Veneto. L’hanno “nobilitata” vari protagonisti della prima assoluta: Roberto Fabbriciani ai flauti, Giancarlo Schiaffini alla tuba, Alvise Vidolin all’elettronica. Esecuzione impegnata e coerente, talvolta un po’ sbilanciata in dinamiche aggressive, comunque di notevole risalto sia sul piano strumentale che su quello vocale. Quest’ultimo è stato risolto con ammirevole impegno dall’ottimo coro del Friuli-Venezia Giulia e da un gruppo di impeccabili solisti, costituito dai soprani Livia Rado e Rosaria Angotti, dai contralti Chiara Osella e Katarzyna Otczyk, dal tenore Marco Rencinai e dalle voci recitanti di Sofia Pozdniakova e Jacopo Giacomoni.
La sera del 25 settembre 1984 le accoglienze ci erano parse “affettuose e partecipi”. Quarant’anni dopo, applausi di circostanza.

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