Il discorso sul potere attraversa le inaugurazioni operistiche italiane, in bilico fra la normalità garantita dal green pass e i nuovi timori pandemici. Accadrà alla Scala il 7 dicembre, quando andrà in scena Macbeth di Verdi, cupo e concentrato dramma musicale dalla sanguinosa tragedia di Shakespeare, straordinaria eccezione alla routine degli “anni di galera” del bussetano. È accaduto sabato scorso, quando la simultanea prima alzata di sipario alla Fenice e all’Opera di Roma (arriverà mai un “piano regolatore” almeno delle date di apertura?) ha delineato in maniera per molti aspetti esemplare la complessità della questione, fra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione.
L’ottimismo è quello di Beethoven, la cui unica opera, Fidelio, è andata in scena a Venezia nella versione ultima, datata 1814. Si assiste in questo “singspiel”, basato su un soggetto nato nella Francia della Rivoluzione, a un lieto fine perfino ingenuo nella sommarietà della drammaturgia. Trionfa una visione positiva della vita e della storia, sorretta dall’incrollabile fiducia che l’amore e la solidarietà siano in grado di rovesciare gli abusi del potere. La visione etica del mondo e degli uomini conduce a un umanesimo universale. La coraggiosa Leonora libererà il marito Florestan, oppresso da un potere vendicativo e feroce, ma prima affermerà un solidarismo integrale: chiunque merita di essere riportato alla libertà e alla dignità umana. Sono questi i valori che la musica di Beethoven esalta con luminosa forza espressiva.
Il pessimismo è quello che promana dal Giulio Cesare di Shakespeare e giunge fino alla magnifica “restituzione” realizzata dalla nuovissima opera di Giorgio Battistelli su libretto in inglese di Ian Burton, Julius Caesar. Lo spettacolo è stato acclamato in prima assoluta al Teatro Costanzi, chi scrive l’ha seguito nello streaming di RaiPlay, il giorno dopo la serata alla Fenice. La magnifica sintesi di Burton porta all’essenziale la lunga e complessa narrazione/meditazione shakespeariana sulla caduta di Giulio Cesare, sui motivi e sulla possibilità etica della cospirazione e del delitto politico, sul dubbio che contamina la concezione stessa del potere e la legittimità etica di rovesciarlo con la violenza. L’unico intervento autonomo del librettista, nel finale, serve a sottolineare l’atroce incertezza e interscambiabilità dei ruoli fra il detentore del potere e coloro che cospirano contro di lui. Sarà infatti lo stesso fantasma di Giulio Cesare, trucidato in Senato, a offrire ai vinti Bruto e Cassio sul campo di battaglia di Filippi la spada per sottrarsi con il suicidio all’onta della sconfitta.
Tra fiducia assoluta e dubbi tormentosi, la riflessione sui meccanismi del potere si fa comunque in questi due lavori teatro musicale di alto valore, nel quale i gesti sono decisivi come le idee, se è vero che da una parte accadono eventi meravigliosi e dall’altro orribili. Opera connotata dalla limpida e potente originalità del linguaggio musicale proveniente dal Classicismo, nel caso di Beethoven. Opera portatrice di una modernità che va oltre le aride astrazioni e si fa capire con immediatezza nel caso di Battistelli. La cui densa partitura si configura come un cupo affresco “in nero” di multiforme ricchezza drammatica.

Ma nel confronto a distanza di queste “inaugurazioni parallele”, la modernità vince anche sui piani della resa musicale e della fondamentale mediazione registica. Alla Fenice, il reputato direttore Myung-Whun Chung, altre volte nello stesso teatro protagonista formidabile, sorprende con una lettura rinunciataria, spesso incolore, che del resto corrisponde in qualche modo a uno spettacolo (regia di Joan Anton Rechi, scene di Gabriel Insignares, costumi di Sebastian Ellrich) velleitario e spento, quasi una “mise en éspace” che manca sia sul piano del coinvolgimento scenico che su quello della fondamentale efficacia attoriale dei cantanti. I quali sul piano musicale offrono prove contrastanti: interessante quella del soprano Tamara Wilson, Leonora che ha le note e le porge con piena determinazione; del tutto inadeguata stilisticamente e vocalmente quella del tenore Ian Koziara, fuori ruolo nella parte di Florestan; positive quelle delle voci basse, il buon carceriere Rocco di Tillmann Rönnebeck e il feroce governatore Pizarro di Oliver Zwarg.
Al Costanzi, il direttore musicale dell’Opera di Roma, Daniele Gatti, ha dipanato la densa scrittura strumentale di Battistelli con lucidità e precisione, esaltandone l’incessante forza propulsiva ritmica (decisive come sempre nel compositore laziale le percussioni) e governando con equilibrio anche l’incessante declamato (una vocalità improntata al recitar cantando, l’ha definita) che contrassegna i dialoghi e le riflessioni solitarie che si alternano sulla scena.
I cantanti erano attori di vaglia e fini musicisti, magnificamente sensibili alla tesa vocalità richiesta da Battistelli: fra tutti, da citare almeno il Giulio Cesare di Clive Bayley, il Bruto di Elliot Madore, il Cassio di Julian Hubbard e il Marc’Antonio di Dominic Sedgwick.
Quanto allo spettacolo, Robert Carsen si è confermato fra i registi di punta dell’opera internazionale grazie a un allestimento (scene di Radu Boruzescu, costumi di Luis F. Carvalho) graffiante nella costante messa a fuoco dei personaggi e dei loro tormenti, capace di costruire una dimensione scenica concreta per quanto stilizzata nel primo atto, fantastica e tutta psicologica nell’oscurità in cui si piomba nella seconda parte. Il risultato è da un lato l’esaltazione della partitura di Battistelli e del libretto di Burton, dall’altro l’affermazione di una narrazione che gioca virtuosisticamente fra realismo e rappresentazione simbolica, dall’emiciclo del senato dove avviene il delitto di Giulio Cesare alla dimensione naturalistica e magica del finale, che è il rovesciamento – anche tecnico: la scena gira su stessa – dello spazio pubblico e politico. Così, il passaggio dall’universalità di Shakespeare alla forza drammaturgico-musicale del Julius Caesar 2021 si compie senza cesure e non lascia nessuno indifferente.
Sopra al titolo, l’assassinio di Giulio Cesare nell’opera di Battistelli al Costanzi di Roma (foto di Fabrizio Sansoni)
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