Opera

L’Elisir è servito con ricetta yankee

Al Filarmonico di Verona un'edizione del capolavoro di Donizetti, su libretto di Felice Romani, che guarda alla serie Tv americana di quarant'anni fa intitolata "Hazzard". Nulla di particolarmente trasgressivo o fuorviante, ma lo spettacolo funziona a intermittenza e punta troppo a un'accentuazione caricaturale, trascurando i fondamentali aspetti sentimentali. Direzione a tratti opaca, compagnia di canto piuttosto buona, nella quale spiccano il tenore Francesco Demuro e il soprano Laura Giordano

L’Elisir d’amore è una delicata commedia sentimentale, ibridata con i meccanismi del comico “puro”. I suoi protagonisti sono l’amoroso forse più ingenuo e per questo teneramente patetico del melodramma ottocentesco e una fanciulla che aspira al grande amore di cui ha letto in qualche libro, senza accorgersi di averlo proprio al suo fianco. Il gioco delle parti viene innescato dal loro incontro con due “tipi” caricaturali e grotteschi, quasi maschere (peraltro sempiterne) di una commedia borghese dell’arte: il militare bellimbusto che si crede irresistibile conquistatore di donne e il ciarlatano avido, che fa i soldi grazie alla credulità della gente e alla sua indubbia arte di imbonitore.

L’efficacia della drammaturgia disegnata dal librettista Felice Romani (qui a uno dei suoi culmini) e da Gaetano Donizetti consiste – fra l’altro – nel mantenere chiaramente separate anche se vicinissime le linee del sentimentale e del comico, facendo in modo che il primo elemento sia alimentato dal secondo a viceversa, però mai confondendo i ruoli. Esemplari, da questo punto di vista, i duetti “incrociati” fra Nemorino e Belcore e fra Adina e Dulcamara: le pene d’amore e la cialtronesca sbruffonaggine si confrontano in parti anche stilisticamente chiaramente connotate e divise: l’obiettivo perfettamente raggiunto è quello di una brillantezza leggera e finissima, che va oltre il comico fine a se stesso.

Per queste caratteristiche, con pochi accorgimenti decisivi L’Elisir d’amore può essere ambientato dappertutto e attualizzato senza problemi e infatti spesso così avviene in questi anni nei teatri, dove non cessa di fare repertorio. Recentemente, un’accattivante e molto riuscita edizione lo collocava in spiaggia, più o meno ai giorni nostri. Legittima, quindi, la libertà di Pier Francesco Maestrini per l’allestimento che è approdato al Filarmonico di Verona dopo avere esordito a Maribor in Slovenia ed avere effettuato un passaggio all’aperto nel cortile di Palazzo Pitti a Firenze. Il riferimento in questo caso è all’immaginario pop di un telefilm americano di notevole successo una quarantina di anni fa, intitolato Hazzard. Ci sono citazioni dirette – Dulcamara è esattamente il grottesco Boss Hogg della serie (abito, capelli, cialtronaggine sopra le righe) e altre più mediate. Lo sfondo (scenografia di Juan Guillermo Nova) è quello del Midwest – campi di granturco e pozzi artesiani, distributore di benzina sulla Route 66, un toro meccanico nel locale dove si mangia fried chicken e scorre a fiumi il bourbon. Che poi il sergente Belcore in questa versione sia ispirato in qualche modo al film Full Metal Jacket (come afferma il regista) è dura da sostenere, mentre non fa una piega che Nemorino campi facendo la pubblicità del pollo fritto… travestito da pollo, quale in effetti nessuno può negare che sia.

Il quadro è plausibile e i costumi appropriatamente country di Luca Dall’Alpi contribuiscono in misura importante. Lo spettacolo però funziona a intermittenza: patisce una notevole staticità, è troppo affollato di stucchevoli scenette e controscene troppo sottolineate, tende a privilegiare il grottesco e il caricaturale più di quanto non serva, sconfinando a volte nella farsa e confondendo gli elementi che Donizetti e Romani non confondono mai. Ad esempio, l’Aria di Adina nel sottofinale, quando finalmente confessa a Nemorino di amarlo, si trasforma in un ammiccante spogliarello durante il quale lui non manca di far emergere una volta di più quanto sia imbranato. Il pubblico ride, ma il momento non è affatto comico.

Lo spettacolo veronese ha visto salire sul podio Ola Rudner, direttore svedese che ha una certa consuetudine con l’orchestra areniana, avendola diretta numerose volte nell’ambito delle stagioni sinfoniche, con un repertorio specialmente orientato al Classicismo viennese. Il rigore e la chiarezza del suo sguardo interpretativo non sono in questione, ma certo il brillante in Donizetti ha una dimensione più estroversa di quella, sia pur precisa, delineata da Rudner, che spesso ha fin troppo rallentato i tempi nelle parti liriche senza che il fraseggio le sostenesse quanto era auspicabile; né quelle più mosse sono parse sempre caratterizzate – specie nel primo atto – dalla nitidezza e dall’estroverso calore che sarebbe stato necessario.

Quanto alla compagnia di canto, trionfatore della serata (abbiamo assistito alla seconda rappresentazione) è stato il tenore Francesco Demuro, un Nemorino che ha saputo commisurare l’eleganza della linea di canto con la nitidezza del timbro e l’assoluta padronanza espressiva in tutte le zone della tessitura, grazie a un’emissione morbida e precisa e a un efficace controllo nei passaggi di registro. Interpretazione delicata e coinvolgente, quella di Demuro, cui ha corrisposto la buona prova di Laura Giordano nei panni di Adina: svettante nel suo gradevole colore chiaro, precisa nell’agilità, elegante e ben accentuata nei passaggi patetici. Salvatore Salvaggio ha risolto la parte di Dulcamara con esperienza e accorta presenza scenica, sempre un passo in qua rispetto all’esagerazione nella caricatura, cui lo spingeva la linea registica. Ma certo, una vocalità più corposa e “presente” avrebbe fatto la differenza, anche se l’agilità nel canto sillabato è stata apprezzabile. Voce scura e corposa, gestita con più efficacia nel secondo atto, ha dimostrato di avere Qianming Dou, un Belcore forse troppo intento a maltrattare la truppa per delineare meglio le sottigliezze di una scrittura vocale dalle molte sfaccettature. Disinvolta scenicamente più che vocalmente la Giannetta di Elisabetta Zizzo, non sempre a suo agio il coro istruito da Matteo Valbusa.

Alla seconda rappresentazione, pubblico più che soddisfatto e alla fine entusiasta.

Foto © Studio Ennevi – Fondazione Arena di Verona

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