Opera

Orfeo, quando l’inferno è Olimpico

Sulla scena palladiana di Vicenza un'esecuzione di assoluto rilievo del capolavoro di Monteverdi da parte di Iván Fischer. La regia, curata dallo stesso direttore ungherese con l'apporto dello scenografo Andrea Tocchio, realizza effetti di poetica dimensione teatrale "tradizionale", mentre la Budapest Festival Orchestra con strumenti antichi sfodera un sontuoso fasto sonoro e la compagnia di canto (capitanata da Valerio Contaldo nel ruolo principale) impone qualità e pertinenza stilistica.

Sarebbe un gran peccato che il Vicenza Opera Festival, recentissima invenzione “olimpica” del direttore d’orchestra Iván Fischer, fosse costretto a cambiare formula. Lo fanno temere le difficoltà finanziarie che a quanto pare le iniziative del musicista ungherese incontrano in patria, le cui conseguenze potrebbero riverberarsi anche qui, nonostante il gran lavoro di supporto della Società del Quartetto e il sostegno concreto di non pochi appassionati. Sarebbe un peccato perché mai ci era capitato di assistere al dispiegarsi di una “sinergia ideale” come quella che Fischer fra l’anno scorso e quest’anno ha fulmineamente dimostrato di possedere nei confronti della scena di Palladio e Scamozzi. Metaforicamente parlando, due tiri due centri. Da un estremo all’altro della storia plurisecolare del melodramma, due realizzazioni a tutti gli effetti esemplari, prima con il Falstaff verdiano in scena nell’ottobre 2018, ora con l’Orfeo di Monteverdi, che ha debuttato l’altra sera in prima nazionale raccogliendo un vivissimo successo.

Con la decisiva collaborazione dello scenografo Andrea Tocchio, Fischer in veste di regista non si lascia intimidire dalla monumentalità della “frons scenae” e la rende anzi protagonista dal terzo atto in poi, quindi dal momento in cui la vicenda si sposta nel regno di Plutone, gli Inferi. Nei primi due atti, fra letizia (le nozze con Euridice) e dramma (la sua repentina morte) la cornice bucolica e pastorale era stata sottolineata dalla trasformazione del palcoscenico in un vasto prato fiorito. Quando Orfeo scende nell’Ade per provare a salvare l’amata, si trova in uno spazio che è insieme astratto e molto concreto: il prato è stato trasformato a vista da figuranti e danzatori, che hanno srotolato la nuova superficie mentre risuonava uno dei “ritornelli” strumentali che punteggiano l’opera. Si tratta ora di una distesa argentea e lucida, che riflette l’aulica architettura sopra la scena e allo stesso tempo regala l’illusione dell’elemento acqueo, sul quale si muove, silenziosa come fosse un’apparizione o un sogno, la barca di Caronte. Teatro “pratico”, che della monumentalità olimpica fa una leva per ulteriori suggestioni: moderno proprio nel suo ricorrere a soluzioni visive di antica tradizione, quelle che dalla semplicità traggono una forza evocativa straordinaria.

Così, il clou dello spettacolo coincide perfettamente con il baricentro musicale e drammaturgico dell’opera, la grande Aria “Possente spirto”, con la quale Orfeo cerca di muovere a pietà il traghettatore dei morti perché lo lasci entrare nell’Ade. Sotto alla porta regia, Orfeo canta questa pagina capitale nella storia del melodramma accompagnandosi con la lira mentre la silenziosa, traslucida barca di Caronte attraversa silenziosamente la scena, raccogliendo le anime dei morti e portandole sull’altra riva. Il frastagliato catalogo di virtuosismo vocale, di cui questo pagina è esempio straordinario, si rifrange e dialoga con l’inaudita ricchezza di un accompagnamento che di volta in volta introduce nuovi colori nell’apparato strumentale, mentre la poesia onirica del paesaggio infernale all’ombra della monumentalità palladiana costituisce un controcanto visivo di peso drammatico avvincente.

Intessuto e nei momenti migliori quasi ricamato dai movimenti coreutici firmati da Sigrid T’Hooft (eseguiti da un corpo di ballo disinvolto quanto efficace), impreziosito dai costumi di Anna Biagiotti, che magari concede qualcosa di scontato all’idea cristologica del personaggio principale, ma regala dettagli molto raffinati un po’ a tutti i personaggi, questo Orfeo ha del resto nella resa musicale un elemento di assoluto livello. Dirigendo dall’organo positivo, Iván Fischer offre del multiforme capolavoro monteverdiano una lettura di rilievo drammatico formidabile. Lo asseconda come meglio non si potrebbe la Budapest Festival Orchestra, compagine in grado di affermare la sua riconosciuta qualità anche con gli strumenti antichi – insieme agli archi “da brazzo” e “da gamba”, le varie famiglie dei flauti, cornetti, tromboni, tastiere diverse, strumenti a pizzico per il basso continuo. Ne esce un’esecuzione di scultoreo fasto sonoro, cui corrisponde – secondo le severe coordinate espressive delineate da Monteverdi per la scrittura vocale – una compagnia di canto impeccabile. Svetta l’Orfeo di Valerio Contaldo, che delinea il passaggio dalla letizia alla disperazione con musicalissima forza emotiva, cesellando al meglio i non facili passaggi di agilità prescritti dal musicista. Ma tuti gli altri sono protagonisti di una prova equilibrata e approfondita, da Antonio Abete, Caronte di implacabile tensione drammatica, a Luciana Mancini, Messaggera dolente e commovente; da Peter Harvey, un Plutone altero e lucido, a Núria Rial, Proserpina di delicata umanità. Completano il cast Emöke Baráth, attonita Euridice, e il gruppo di pastori/spiriti formato da Michał Czerniawski, Cyril Auvity e Francisco Fernández-Rueda, tutti appropriati per stile, colore, eleganza. Il coro della Iván Fischer Opera Company, disposto sotto la scena nella zona dell’orchestra, ha trovato la misura man mano che l’esecuzione procedeva.

Senza cesure rispetto all’originale monteverdiano, alla fine, la breve musica “nuova” composta dallo stesso Fischer per realizzare il libretto originale di Alessandro Striggio (Mantova, 1607), che si conclude con un baccanale a differenza dell’edizione a stampa dell’opera (Venezia, 1609), che prevede l’apoteosi di Orfeo per intervento di Apollo. Dal punto di vista dello spettacolo, la resa è stata vivace e anche ironica nelle successive trasformazioni di Dioniso evocato dalle mènadi. Musicalmente, l’impressione è stata quella dell’abile utilizzo, quasi un montaggio, di piccoli elementi della partitura monteverdiana corredati poi da una disinvolta invenzione “alla maniera di”. In questo modo, quando l’esecuzione è riconfluita nell’originale monteverdiano con la conclusiva “Moresca”, si è avuta una sensazione di uniformità timbrica, ritmica e vocale. Quanto alla definizione tragica di questo finale, con la morte violenta di Orfeo, peraltro solo evocata simbolicamente (il personaggio è giù uscito di scena), è soluzione che nulla cambia rispetto alla intrinseca forza drammatica di un’opera che a oltre 400 anni di distanza ci parla ancora con l’universalità che è propria solo di pochi capolavori. Quelli che resistono anche ai cambi di finale.

Foto © Luigi De Frenza

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