Opera

“Orfeo”, Gluck con un tocco di Liszt

Per la coproduzione del Comune di Padova e di Operaestate Festival, Marco Angius ha proposto un'interpretazione "storicizzata", che recupera come Ouverture il poema sinfonico "Orpheus", scritto dal musicista ungherese per la rappresentazione del 1854 a Weimar, e non esita a inserire frammenti della "Sequenza" per arpa di Berio nel momento più drammatico della vicenda. Musicalmente, la proposta tiene. Affascina meno l'allestimento, con le coreografie in stile moderno di Nicoletta Cabassi, ma il risultato è comunque interessante e il pubblico apprezza, sia a Padova che a Bassano

Intorno a Orfeo ed Euridice di Gluck (Vienna, 5 ottobre 1762) corrono narrazioni storiche e musicologiche molto varie. La più nota è quella che fa di questo titolo il nucleo di un progetto riformatore dell’opera seria italiana che aveva nel conte Giacomo Durazzo (“Generalmusikdirektor” e direttore dei teatri imperiali a Vienna) una sorta di “ideologo” e nel compositore ma soprattutto nel librettista Ranieri Calzabigi i suoi efficaci “bracci operativi”. In realtà, la questione è più complessa. Non è che in quest’opera non vi siano elementi di rinnovamento rispetto alle ormai stucchevoli procedure formali, musicali e poetiche del melodramma metastasiano, ma tali elementi sono inseriti in un lavoro tipicamente d’occasione, appartenente al sotto-genere della festa teatrale, creata per festeggiare l’onomastico dell’imperatore Francesco, consorte di Maria Teresa d’Austria. Questo spiega come il mito originario – elemento fondante nella storia stessa del teatro per musica a partire dall’Orfeo monteverdiano – sia sostanzialmente stravolto: la vicenda non si conclude tragicamente, con la morte del prodigioso musico, bensì festosamente con l’intervento di Amore, “deus ex machina” che permette un felicissimo scioglimento. Né più né meno di quanto, per convenzione, avveniva da decenni con pochissime eccezioni nell’opera seria italiana. «Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe», si sarebbe giustificato Calzabigi due anni più tardi, nell’Argomento dell’edizione a stampa (Parigi, 1764). Resta però il fatto che in Orfeo ed Euridice trova notevole affermazione una nuova “sinergia” fra librettista e compositore, secondo un lavoro di squadra che rimodella l’opera in maniera tale da realizzare i comuni obiettivi “riformisti” di semplicità e intensità teatrale con la migliore efficacia. Il cuore e la vetta di questa poetica è il secondo atto, quello della discesa agli Inferi, del confronto con le Furie, della beatitudine nella contemplazione dei Campi Elisi: una drammaturgia circolare fra parola, musica e gesto, visto che qui i balli hanno un ruolo fondamentale. Più ibridi dal punto di vista stilistico sono sia il primo che il terzo atto. Il primo è modellato secondo le forme del Tombeaualla francese: una scena di lutto peraltro tratteggiata con severa intensità e con una drammaticità sempre scandita sulla parola di Orfeo. Il terzo atto si risolve in encomiastica letizia per la salvezza di Euridice, ma ruota intorno a una delle più celebri Arie della storia dell’opera, “Che farò senza Euridice!”: melodia incantevole e tuttavia priva di autentico pathos, anche se il momento è il culmine della drammaticità. L’apparente ritorno alla contrastata poetica melodrammatica dell’opera italiana è però riscattato dalla severità della forma e dalla semplicità della linea: “cadenze e ritornelli” non hanno più diritto di cittadinanza e la loro assenza salva l’integrità dell’assunto.

In ogni caso, Orfeo ed Euridice ebbe straordinaria fortuna e quindi, come inevitabilmente accadeva nel sistema teatrale musicale settecentesco, fu sottoposto a ogni tipo di “aggiustamenti” e modifiche a seconda delle occasioni esecutive. È a partire in particolare da questa evidenza che Marco Angius ha proposto il suo particolare e sicuramente originale taglio esecutivo, affidato alla coproduzione dell’opera fra il Comune di Padova e Operaestate Festival. Lo spettacolo è andato in scena con successo nel padovano Castello Carrarese e due sere dopo (causa maltempo) al teatro Remondini di Bassano.

Non senza una certa polemica (esplicitata nelle note di sala) nei confronti di musicologi e filologi, con la loro pretesa di attuare le presunte volontà “originarie” del compositore nonostante queste siano notoriamente mutate nel tempo, il direttore dell’Orchestra di Padova e del Veneto ha quindi costruito un Orfeo ed Euridice musicalmente stratificato e storicamente consapevole non tanto della prassi esecutiva d’epoca, quanto della ricezione di quest’opera in momenti storici diversi. Così, l’inizio dello spettacolo fa riferimento a una celebre esecuzione avvenuta a Weimar nel 1854, sotto la guida di Franz Liszt. E poiché il musicista ungherese scrisse in quell’occasione – a mo’ di prologo – il poema sinfonico Orpheus, a questa musica ha affidato il ruolo dell’ouverture originale gluckiana, che quindi è stata espunta dallo spettacolo. Di più, nel momento di maggiore pathos di tutta l’opera, la morte di Euridice causata dallo sguardo di Orfeo durante il ritorno dagli Inferi, ecco fare irruzione la musica del ‘900, con alcuni frammenti della Sequenza per arpa di Luciano Berio (1963), a sottolineare icasticamente e in chiave universale la tensione drammatica.

Una rilettura in qualche modo provocatoria, dunque, eppure tale da salvaguardare la forza drammaturgica dell’insieme perché proposta con equilibrio e misura. Fondamentale in questo la duttile qualità esecutiva dell’orchestra padovana – collocata sul fondo della scena e non davanti ad essa – che è risultata omogenea, precisa, nitida nel mettere in evidenza la tavolozza timbrica di Gluck (come pure quella di Liszt).

Lo spettacolo aveva in certo modo le caratteristiche dell’opera-studio: una sorta di “laboratorio” intorno al soggetto gluckiano e alla sua forma musicale, basato specialmente sugli inserti coreografici di Nicoletta Cabassi per la compagnia Lubbert Das, nel contrasto fra il Settecento del compositore e un linguaggio corporeo di chiara modernità, magari un po’ manierato e non particolarmente incisivo, ma non privo di qualche suggestione. Non sempre a suo agio il coro Iris Ensemble istruito da Marina Malavasi, non tanto sul piano musicale, risolto con apprezzabile rigore e profondità, ma su quello scenico: era chiamato a una ieraticità di stampo classico di appropriato contrasto rispetto alle danze, ma risolta con gestualità generica e talvolta ingenua.

Neanche le tre protagoniste vocali hanno trovato, dal punto di vista del gesto scenico che si fa drammaturgia, una particolare efficacia. Esse però si sono fatte valere per la coerente essenzialità della linea di canto e l’apprezzabile qualità del colore vocale. Si trattava di Laura Polverelli, un Orfeo di misurata intensità nel dolore e nella speranza, di Michela Antenucci, un’Euridice di limpida eleganza, e di Veronica Granatiero, che ha dato al personaggio di Amore l’ironica brillantezza che gli appartiene.

Pubblico folto a Padova, dove abbiamo seguito la recita, e alla fine prodigo di calorosi applausi.

Foto © Giuliano Ghiraldini

 

 

 

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