Opera

Lecouvreur, eleganza sottile di Cilea

Il capolavoro del compositore calabrese in scena dopo 30 anni al Filarmonico di Verona. Lo spettacolo, ambientato efficacemente nel primo Novecento, è firmato da Ivan Stefanutti per regia, scene e costumi. Dettagliata e precisa la direzione di Massimiliano Stefanelli. Compagnia di canto in cui si distingue Hui He, al debutto nel ruolo del titolo con bella introspezione e adeguata vocalità. Al suo fianco il tenore Fabio Armiliato e il baritono Alberto Mastromarino, esperti ma non sempre convincenti

Incorniciata fra “Io sono l’umile ancella” e “Poveri fiori” – le due celebri Arie della protagonista che dal 1902 sono stabilmente fra i “greatest hits” sopranili – Adriana Lecouvreur smentisce quasi ovunque, nel resto, la sua appartenenza stilistica al momento in cui venne alla luce. Affermando piuttosto l’irriducibile autonomia del suo raffinato autore, Francesco Cilea, non a caso compositore di pochi titoli e di lunghi appartati silenzi.

Opera anfibia e singolare, Adriana, che il confuso libretto di Arturo Colautti da Scribe  – pomposa versificazione, stucchevoli rime interne, ricerca poco riuscita di una terminolgia “alta” e originale, ma scarsa o assente coerenza drammaturgica nel viluppo di intrighi sovrapposti – non riesce a mettere in crisi proprio per la felice disposizione del compositore. Il quale da un lato si tiene prudentemente in disparte rispetto alle tendenza della scuola verista, tuffandosi con felice libertà inventiva nella settecentesca vicenda della diva della Comédie Française che fu amica di Voltaire, dall’altro non esita a premere a fondo il pedale del dramma sentimentale, riuscendo nella non facile impresa di interiorizzarlo e di scavarne le dimensioni psicologiche oltre una tragicità annunciata ma tutto sommato sorprendente. Così, la temperatura emotiva risulta continuamente cangiante nei quattro atti, in corrispondenza con un clima espressivo che passa dalla commedia al dramma senza soluzione di continuità. Nella commedi, Cilea sciorina una nonchalance perfino raffinata, nel dramma si serve di una scrittura strumentale rigogliosa e ben controllata, alla quale il ricorrente ma un po’ freddo ritorno di alcuni “temi guida” non nuoce più di tanto, per approfondire adeguatamente la tensione.

Particolarmente significativa risulta la densa “gran scena” che  chiude l’opera. Se Colautti ammicca al pubblico dell’Italietta post-umbertina delineando una sorta di sintesi a effetto della grande tradizione melodrammatica italiana fra Lucia di Lammermoor e Traviata (il ritorno del reprobo troppo amato fra le braccia della protagonista destinata a tragica fine s’incrocia con il delirio da veleno di quest’ultima, in una versione aggiornata del tipico “topos” drammatico del primo Romanticismo ), Cilea va per la sua strada con ammirevole decoro e indubitabile efficacia. Saldo nella distribuzione formale, lontano dalla maniera fine a se stessa, capace di una intrigante ricchezza melodica intorno al teso canto di conversazione.

Adriana Lecouvreur è un caso particolare anche per quanto riguarda la sua “resilienza” nella ricezione. Non sarà nel grande repertorio, ma resta presente, sia pure con discrezione, nei cartelloni dei maggiori teatri d’opera, peraltro più all’estero che in Italia. Al Filarmonico di Verona, però, l’opera mancava da trent’anni esatti e giunge dunque opportuna la decisione di riproporla quest’anno nella versione firmata per regia, scene e costumi da Ivan Stefanutti, proveniente dal Teatro Sociale di Como.

L’idea di fondo del regista è accorta e per molti aspetti rivelatoria: spostare la vicenda all’epoca della composizione, e dunque ai primi del Novecento, gli permette infatti di rispettare il contesto drammaturgico generale (una vicenda che riguarda il teatro e i suoi frequentatori – attori e appassionati), inserendolo in un contesto d’immagine che fa riferimento all’art-déco e gioca soprattutto con il bianco-nero. Adriana Lecouvreur come Lyda Borelli, insomma, in un gioco di analogie e di rispecchimento che coinvolge anche luogo della rappresentazione, visto che a un certo punto è una grande fotografia del Filarmonico a campeggiare sul fondo della scena. Nell’insieme, spettacolo elegante e mai troppo carico (ben servito anche dalle luci e soprattutto dai necessarissimi bui di Paolo Mazzon) com’è giusto che sia per la partitura di Cilea. La quale a sua volta viene ripercorsa con attenzione e precisa scelta stilistica da Massimiliano Stefanelli, sul podio dell’orchestra areniana. C’è evidenza per la ricchezza della scrittura strumentale del compositore calabrese, nella sua intepretazione, ma c’è anche una duttile predisposizione a cogliere il mutare dei climi spressivi dell’opera, fra leggerezze alla maniera settecentesca, brillantezze di commedia e forti accentuazioni drammatiche. Sempre delineati con suono di apprezzabile qualità e dinamiche ben articolate, lontane dalla ruvide perorazioni veristiche. Per fare solo un esempio: il tremolo degli archi che chiude l’opera è sottovoce, come dev’essere. Un sospiro antiretorico sul lento arpeggio dell’arpa. Ma invano Stefanelli avverte il pubblico, alzando un braccio, di aspettare ad applaudire: l’ultimo accordo si perde nello scroscio del pubblico entusista.

Compagnia di canto suddivisa fra esperti e debuttanti. A questa seconda categoria appartiene – per quanto riguarda il ruolo, s’intende, affrontato per la prima volta – il soprano Hui He, che non avrà scena da gran diva e nelle parti recitate (non ampie, peraltro) resta sul generico enfatico, ma ha voce e la usa bene. Nel primo atto forse patisce un po’ di tensione (del resto, “Io sono l’umile ancella” arriva praticamente a freddo) che si rispecchia nella rigidità di fraseggio e nella precisione non impeccabile, ma la sua prova va in crescendo e diventa miauscola nel terzo e specialmente nel quarto atto: colore, intensità, eleganza della linea di canto sono di notevole classe, così come rilevante è la scelta stilistica introspettiva, mai troppo estroversa.

Esperti sono sia il tenore Fabio Armiliato (il conte di Sassonia) che Alberto Mastromarino (il direttore di scena Michonnet). Entrambi delineano accortamente i loro personaggi – “leggero”, appassionato ma solo alla fine consapevole del dramma di Adriana l’uno; affabile e tristemente rassegnato a non vedere mai coronato il suo sogno d’amore per la diva l’altro. Armiliato manifesta prontezza nella zona acuta della tessitura e fraseggia con accortezza, anche se non sempre il suo colore risulta omogeneo e ben timbrato. Altrettanto si può dire di Mastromarino, esperto (non senza gigionerie) nel canto di conversazione, apprezzabile nei centri, meno quando deve salire e spingendo tende a perdere la qualità espressiva. Nei panni della perfida principessa di Bouillon fa ottima figura il mezzosoprano Carmen Topciu: una caratterizzazione sbalzata a tutto tondo sia scenicamente che vocalmente, grazie a una voce corposa e ben controllata. Brillante in una parte singolarmente leggera Roberto Covatta come abate di Chazeuil, puntuale Alessandro Abis nel ruolo del principe di Bouillon, complessivamente a posto il drappello dei comprimari: Massimiliano catellani (Quinalut), Klodian Kacani (Poisson), Cristin Arsenova (la Jouvenot), Lorrie Garcia (la Danmgeville) e Michelangelo Brunelli (un maggiordomo). Scenicamente partecipe e vocalmente a punto il coro istruito da Vito Lombardi.

Pubblico folto, successo vivissimo, con numerosi applausi a scena aperta e lunghe chiamate alla fine.

Foto Ennevi – Fondazione Arena

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