Concerti

Rachmaninov oltre la maniera

Il pianista Pietro De Maria al Comunale di Vicenza nel secondo Concerto dell'autore russo insieme all'Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Giampaolo Pretto: esecuzione di magistrale equilibrio, che fa piazza pulita della retorica espressiva senza rinunciare a delineare a tutto tondo il lirismo che domina questa pagina. Nella seconda parte spazio alla Settima Sinfonia di Dvořák

A quindici anni di distanza l’uno dall’altro, nell’ultimo scorcio del XIX secolo, due compositori dell’Est europeo sembrano abbandonare ogni illusione “nazionalista” e folclorica, realizzando due lavori di grande importanza e di destino molto diverso. La Sinfonia n. 7 del boemo Dvořák (1885) resta oggi sostanzialmente ai margini del repertorio, anche se per un singolare incrocio di programmazioni a Vicenza si è potuta ascoltare due volte nel giro di pochi mesi. Il secondo Concerto per pianoforte del russo Rachmaninov (1900) è invece un “greatest hit” di vastissima popolarità internazionale, un caposaldo del repertorio, ineludibile sfida interpretativa per generazioni di pianisti e brano prediletto da legioni di ascoltatori ben disposti nei confronti delle suggestioni sentimentali che la partitura abilmente sprigiona.

Sia Dvořák che Rachmaninov avevano alle spalle un’esperienza “nazionalistica”, per quanto misurata. Il boemo era diventato noto sul finire degli anni ’70 quando l’editore berlinese Simrock, per i buoni uffici di Brahms, aveva pubblicato con immediato successo le sue Danze Slave. Il russo, nato nel 1873, aveva iniziato neanche ventenne una brillante carriera di compositore, dimostrandosi propenso ad ascoltare le “sirene” della scuola nazionale attiva nella sua patria, rappresentata da nomi di assoluto prestigio come Rimskij-Korsakov e Borodin.

La scelta “cosmopolita” di Dvořák e la decisione di scrivere una Sinfonia il più possibile “assoluta” – vicina allo stile di Brahms ma non troppo nella sua scia – furono un fatto puramente estetico: una sorta di sfida musicale che corrispondeva del resto alla sua indole sempre propensa alla mediazione culturale più che all’accentuazione delle tradizioni folcloriche. Che nell’insieme della sua opera abbondano, beninteso, ma non danno mai l’impressione di una scelta radicale. E del resto, la commissione per questa Sinfonia gli era arrivata dalla London Philharmonic Society, il prestigioso “club” musicale britannico che sessant’anni prima aveva chiesto a Beethoven quella che poi sarebbe stata la Nona Sinfonia. Il risultato è un pezzo formalmente e tecnicamente magistrale, un gioiello di scrittura orchestrale vivificato dalla inesauribile inventiva melodica dell’autore boemo, in questo caso dispiegata nelle sfumature di un atmosfera piuttosto scura, spesso drammatica. Il che spiega il titolo del tutto apocrifo che a volte si trova a proposito di questa composizione: “Del tempo torbido”.

Rachmaninov invece fu spinto a cambiare dal clamoroso fiasco della sua prima Sinfonia, eseguita a Mosca nel 1897 e fatta pezzi dalla critica, maltrattata dai grandi maestri russi, sostanzialmente incompresa. Piombato in una crisi creativa durata almeno tre anni, il musicista ne uscì grazie alle sedute di ipnosi di un medico moscovita, Nicolai Dahl, (che non a caso è il dedicatario dell’opera), dopo le quali sfornò il Secondo Concerto, monumento al sentimentalismo russo e al lirismo del compositore, più ancora che al vertiginoso virtuosismo richiesto al solista. Nasce qui lo stile più noto di Rachmaninov: gli influssi della musica tradizionale sono mediati, da un certo punto di vista depotenziati, e sottoposti a una metamorfosi manieristica che costruisce un atmosfera russa tutto sommato generica, ma dalla forte carica emotiva e perfino immaginifica. E non è infatti un caso se questo Concerto è stato utilizzato decine di volte dal cinema.

Questo interessante programma è stato proposto al Comunale di Vicenza dall’Orchestra Filarmonica di Torino, ospite della stagione sinfonica della Oto (che ricambierà la visita con un concerto a Torino nella prossima primavera). Sul podio c’era il direttore musicale della formazione sabauda, Giampaolo Pretto; al pianoforte per Rachmaninov, Pietro De Maria. Dobbiamo al cinquantunenne pianista veneziano – la cui brillante carriera non conoscerà forse gli exploit mediatici di altri suoi colleghi, ma resta di altissimo livello – l’esecuzione più interessante e “completa” che ci sia capitato di ascoltare da molto tempo a questa parte del cosiddetto “Rach 2”. In questa lettura, la misura nel suono e nel tocco non sono mai una rinuncia, ma anzi il mezzo per arrivare a un’espressività solida, ricca, multiforme, che rende ragione della complessa scrittura pianistica di Rachmaninov illuminandone gli angoli nascosti con una precisione e una chiarezza davvero esemplari. Non c’è eccesso di sentimentalismo, ma c’è la comprensione di quanto una certa linea interpretativa ormai storicizzata, di tornita retorica, ha dato all’immagine di questo Concerto; non c’è nemmeno una acritica concessione a certe recenti istanze esegetiche, che tendono ad assottigliare il discorso fino quasi a denaturarlo, nella ricerca di un suono poetico ma anche asettico. De Maria invece trova un sovrano equilibrio, dentro a una gamma dinamica e coloristica di esemplare completezza e con scelte di tempo eloquenti, mai banalmente tratteggiate ma dovute a una lucida necessità espressiva, che emerge con singolare nitidezza. In questo modo, Rachmaninov sfugge alla maniera, come quasi mai accade di sentire: un servizio musicale inestimabile.

Accompagnato con nitida evidenza dalla Filarmonica di Torino, che Pretto sorveglia e sollecita con minuziosa precisione, facendo emergere l’ottima disposizione specialmente dei fiati (meno equilibrati per quanto brillanti gli ottoni, ma l’acustica del Comunale è traditrice) De Maria è stato accolto dagli applausi convinti del pubblica che gremiva in ogni posto il Comunale e ha concesso una collana di bis all’antica maniera: il Bach della “Siciliana” originariamente nella Sonata per flauto e cembalo, lo Chopin del Valzer op. 64 n. 1 e dello Studio op. 10 n. 1. All’insegna dell’eleganza e della brillantezza.

Nella seconda parte, la Filarmonica di Torino ha proposto un’esecuzione della Settima di Dvořák non troppo piena dal punto di vista del suono, anche perché la formazione era forse un po’ troppo sottodimensionata negli archi per affrontare al meglio il capolavoro del compositore boemo, ma non priva della tensione espressiva che caratterizza questa partitura e soprattutto ricca del colore giusto nei fiati e molto espressiva nelle articolazioni di fraseggio, condotte da Pretto con gusto sicuro e incisivo.

Alla fine, grandi applausi e vetrina per tutte le sezioni della formazione torinese.

Foto © Angelo Nicoletti

Condividi questo articolo:
Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email