Opera

Manon, la dissoluzione dell’amore

A distanza di sette anni è tornata al Filarmonico di Verona la "Manon Lescaut" di Puccini, proposta con la rivelatoria e coinvolgente regia di Graham Vick. Lo spettacolo attualizza la vicenda ma soprattutto ne mette a fuoco la desolante "questione morale". Energica direzione di Francesco Ivan Ciampa, compagnia di canto in cui brilla il Des Grieux di Gaston Rivero. Nella parte del titolo Amarilli Nizza, efficace presenza scenica ma prova vocale condizionata da un malessere comunicato a metà spettacolo

A distanza di otto anni dal suo debutto a Venezia (di sette dal primo approdo veronese, visto che si tratta di una coproduzione tra Fenice e Arena), la Manon Lescaut secondo Graham Vick appare sempre più come un notevole saggio di regia operistica contemporanea. E se ne ha conferma in occasione della ripresa proposta come secondo titolo della stagione lirica al teatro Filarmonico. Al centro della riflessione del regista inglese, al di là di un’attualizzazione che colpisce ma non è l’elemento fondamentale del discorso (e infatti cede il passo a un immaginario più complesso, nella seconda parte dello spettacolo virato persino verso l’espressionismo) c’è una tagliente e sconsolata messa a fuoco della “questione morale” che sottende la vicenda della protagonista. La quale è allo stesso tempo una giovane “innamorata dell’amore” e una vittima della seduzione della ricchezza; un carattere forte capace di tenere in soggezione assoluta l’innamorato Des Grieux, disperatamente legato a lei, e un carattere debole, che sprofonda nella débauche, nell’abiezione, per inseguire il mito della bella vita.

Nel primo grande successo di Giacomo Puccini, in realtà, il giudizio morale rimane in certo modo sottinteso in un discorso che da un lato punta sull’esaltazione dell’amore in tutte le sue sfaccettature e dall’altro si esalta nella plateale emotività di un finale tragico a tinte fosche eppure caldissime. In quest’opera, l’amore “puro” e quello “peccaminoso” tendono a sovrapporsi, ad equivalersi. Il musicista lucchese inaugura qui la sua mirabolante carriera di anatomo-patologo del sentimentalismo del suo pubblico, peraltro spesso portatore di una poco confessabile pruriginosità. Questo gusto viene “servito” attraverso una musica di straripante vitalità ed energia, dotta eppure capace di ammiccare al gusto popolare nel suo suadente charme melodico. La Manon di Puccini muore quindi incolpevole, o meglio, colpevole soltanto di amare. E non c’è giudizio, ma solo abilissima pittura musicale.

La regia di Graham Vick (scende di Andrew Hays, costumi di Kimm Kovac, luci di Giuseppe Di Iorio) racconta lo sprofondamento dei protagonisti con la plastica evidenza scenica di un terreno fangoso che diventa sempre più grande, letteralmente divora lo spazio della scena fino a lasciarla sospesa e infine quasi a farla scomparire. Mentre la storia corre verso la tragedia, è come se un’enorme frana si insinuasse sotto la scuola in cui si svolge il primo atto, si allargasse nel palazzo di Geronte, teatrino delle vanità e del vizio (secondo atto), inghiottisse la banchina del porto di Le Havre (terzo atto). Quando si arriva nel deserto del tragico quarto atto, la maggior parte del palcoscenico è occupato da una sorta di profonda discarica, sulla quale si affaccia quel che resta del “college” dell’inizio; pochi studenti, su alcuni praticabili, “studiano” dall’alto il finale della vicenda e i suoi due disperati protagonisti, quasi come entomologi chini su un terrario. Alla fine, supremo sberleffo, al momento della morte di Manon uno di essi lancerà un nastro colorato, segnale di insensata fatuità.

Lo spettacolo non fa sconti, anche se ha una debolezza nella dilatazione della durata dell’unico intervallo, quasi un’ora per le necessità di un cambio di scena particolarmente complesso. Nel primo atto, la nascita dell’amore è raccontata come un gioco da luna park, fra attrazioni varie e grandi cigni-giostra; nel secondo la dissoluzione di Manon, prima del rinnovato divampare del “vero amore”, ha le scansioni di una discesa negli abissi della dissoluzione, fra droghe e sesso come merce, senza che manchi una nota di sensuale ambiguità nel lungo dialogo fra la protagonista e il fratello, Lescaut. I due rapidi atti finali vedono la tensione farsi cruda, spietata, per quanto raccontata con oggettivo distacco. All’imbarco per l’America, le prostitute in attesa di deportazione sono appese, seminude, in cesti che si rivelano – una volta abbassati – le loro crinoline. Viene da pensare, a tratti, che immagini e gesti potrebbero essere quelli di uno spettacolo di Fassbinder. Il tutto esalta la modernità di Puccini e la sua dirompente novità. Che è quella di una drammaturgia musicale nella quale la passione non ha solo un’esteriorità sentimentale, autosufficiente nella sua travolgente fisicità, ma raggiunge le inquietanti profondità della coscienza.

Come sette anni fa, il ruolo del titolo era sostenuto da Amarilli Nizza, che ha il fisico del ruolo anche se la sua anagrafe è un po’ diversa e tiene molto bene la scena, con notevole intensità attoriale e la sofferta sensualità che la regia le affida. Diversamente da sette anni fa, la resa vocale ha mostrato più volte la corda per la non risolta tensione nella zona acuta della tessitura e un colore meno seducente del solito: timbro sbiancato, povero di armonici anche al centro, pur nella consapevolezza del fraseggio. Una spiegazione si è avuta alla fine dell’intervallo, quando la sovrintendente in persona, Cecilia Gasdia, è uscita a proscenio per annunciare le precarie condizioni fisiche di Nizza, colpita da una malattia stagionale, ma disposta a condurre in porto la recita. Evidentemente, la situazione è repentinamente peggiorata dopo l’inizio dello spettacolo, visto che la cantante non aveva ritenuto di far conoscere all’inizio questo problema.

Gaston Rivero è stato un Des Grieux appassionato ma lontano dalle esagerazioni veristiche che spesso falsano questo ruolo. La sua linea di canto è risultata discretamente duttile ed espressiva, omogenea e non priva di una certa eleganza. Positiva anche la prova di Giorgio Caoduro, che ha reso bene la sciagurata fatuità del personaggio di Lescaut, mentre Romano Dal Zovo è stato un Geronte non proprio a suo agio scenicamente, vocalmente efficace come l’Edmondo brillante di Andrea Giovannini. Completavano il cast con discreta resa Giovanni Bellavia (l’oste), Alessia Nadin (un musico), Bruno Lazzaretti (maestro di ballo) e Alessandro Busi (il comandante di Marina). Il coro istruito da Vito Lombardi si è proposto con disinvoltura in scena (calzoni corti per gli uomini, ammiccanti gonnellini a pieghe per le donne) trovando la giusta compattezza dentro a una linea espressiva non banale.

Dal podio, Francesco Ivan Ciampa ha proposto una lettura molto energica, articolando con efficacia le dinamiche e i colori (ben delineati dall’orchestra areniana) e cogliendo piuttosto bene la multiforme chiave espressiva di Manon Lescaut, che raggiunge il calor bianco drammatico solo alla fine e in precedenza disegna un percorso sinuoso e multiforme, nel quale i dettagli sono tutti importanti. Ciampa li ha curati come si conveniva, anche a scapito, qualche volta, del migliore equilibrio fra orchestra e scena, del resto non agevolato dalle precarie condizioni di Amarilli Nizza.

Pubblico folto alla prima e grandi applausi per tutti non senza l’apporto di una claque piuttosto attiva e rumorosa.

Foto © Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

 

 

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