Cronache

Keith Jarrett, il Leone stravagante

La Biennale Musica premia il celebre pianista jazz americano, stizzoso super-divo che ad ogni concerto lascia gli organizzatori con il fiato sospeso per le sue bizze e che spesso ha "litigato" con il pubblico in Italia. Una scelta a effetto che oltre l'arte improvvisativa sembra più che altro volta a celebrare il successo di mercato, e specialmente i fasti del "mitico" e ormai lontano concerto di Colonia (1975), che ha "fondato" la fama del musicista grazie agli oltre 4 milioni di dischi venduti

Una scelta stravagante per un musicista stravagante. E dato che siamo a Venezia, patria del “prete rosso” Antonio Vivaldi, che circa tre secoli fa intitolava La stravaganza una sua raccolta di Concerti, i conti in certo qual modo tornano. Solo sul piano nominalistico, però. Perché quanto alla cosa in sé, la decisione della Biennale Musica di assegnare il Leone d’oro alla carriera al settantatreenne americano Keith Jarrett, celebrato e controverso pianista jazz-classico, oltre l’effetto sorpresa e l’inevitabile risalto mediatico qualche perplessità la suscita.

Bisogna dare atto a Ivan Fedele – il direttore del settore musica – e al consiglio di amministrazione presieduto da Paolo Baratta di avere comunque avuto coraggio. Chi sia il Divo Jarrett è ben noto. Di quali stranezze, esagerazioni e provocazioni sia capace è altrettanto noto. Fra l’altro, il suo rapporto con il pubblico italiano è fra i più controversi e spinosi in assoluto. È una storia lunga e “never ending”, come direbbero dalle sue parti: una storia cominciata quasi 40 anni fa in quel di Palermo, quando l’isolato fischio di un timido contestatore lo indusse ad abbandonare sdegnato il palcoscenico. Quella volta, le cronache raccontano addirittura che il dissenziente fu individuato dalla forza pubblica e portato di peso di fronte al suo camerino. Non è chiaro cosa sarebbe dovuto accadere, ma Keith Jarrett ovviamente si defilò e la cosa si chiuse lì. I decenni successivi, con le pause e le assenze determinate dai suoi problemi di salute non meno che dal disegno delle tournée e dalla curva della sua ispirazione, sono stati un susseguirsi di piccoli o grandi incidenti, con l’occhio del ciclone in Umbria Jazz, dove ogni volta scoppia la polemica. Una decina di anni fa, dopo una serata tumultuosa, si sono letti giuramenti da parte degli organizzatori che mai il Divo avrebbe rimesso piede al più noto festival jazz italiano. Sei-sette anni più tardi lo si è ritrovato a Perugia (“business is business”, che diamine; e lo diciamo riferendoci a tutte le parti in causa, mica solo a chi stacca i biglietti) dentro analoghi putiferi. Nonostante fosse in trio insieme ai fidatissimi Gary Peacock e Jack DeJohnette, che hanno quasi sempre un effetto tranquillizzante, ha finito per suonare al buio e spalle a un pubblico colpevole di non volerne sapere della proibizione di scattare qualche fotografia.

Così, è inevitabile che l’ala dell’azzardo si stenda sulla serata del prossimo 29 settembre, quando Keith Jarrett è atteso a Venezia per ritirare il Leone e – secondo quanto si legge nel comunicato della Biennale – per «essere protagonista al pianoforte di una delle sue leggendarie improvvisazioni, avvenimenti unici e irripetibili».

Per definizione, qualsiasi improvvisazione è un avvenimento “unico e irripetibile”, ma evidentemente se c’è di mezzo Keith Jarrett, di più. Il punto è che proprio per la natura creativa e musicale di questo avvenimento, e considerando il carattere difficile, diciamo così, del Divo, non è affatto certo che sia “memorabile”. Bisognerà che il clima aiuti, perché si sa che i tasti del pianoforte, quando suona Jarrett, non devono avere una temperatura inferiore ai 19 gradi centigradi (i tasti, avete letto giusto). Ma qui la tecnica della climatizzazione può venire in soccorso. Bisognerà che il pubblico sia avvezzo alle sue esigenze. Perché, come dice lui, quando improvvisa il pubblico è importante, decisivo. In un senso o nell’altro. Può esaltarne o bloccarne l’ispirazione. Bella responsabilità. Ma in genere (tranne che a Perugia, forse), chi si presenta al cospetto del Divo sa come comportarsi. Condizione necessaria ma non sufficiente. Perché l’arte di Jarrett percorre strade che non si possono prevedere né conoscere a priori.

Ma il punto, alla fine, è proprio questo, oltre le cronache della molto peculiare bizzarria di questo pianista. La sua arte davvero merita il massimo riconoscimento della gloriosa e storica Biennale di Venezia? Le sue qualità di pianista sono riconosciute, ma spesso l’impressione è che il personaggio vada oltre la sua musica. È un primario protagonista del jazz, beninteso, in un gruppetto non così sprovvisto, tuttavia, di colleghi altrettanto valorosi. Di sicuro è difficile definirlo un grande della classica. Qui il Nostro frequenta Bach e Bartók, Sostakovic e Mozart, Händel e Samuel Barber. Ha registrato tre o quattro Concerti mozartiani fra quelli più famosi, e in maniera sicuramente non memorabile, con suono e tempi in stile anni ’50. Il suo Bach tutto al cembalo (Goldberg, Clavicembalo Ben Temperato integrale e altro ancora) sfida le leggi della monotonia nell’era in cui tutti i grandi intepreti lo eseguono al pianoforte. Non conosciamo, di Jarrett, percorsi creativi sofisticati come quelli che recentemente ha messo a fuoco su Bach il suo collega Brad Mehldau, che potrebbe essere suo figlio, ma soltanto anagraficamente. Le sue composizioni sono parte minoritaria e non così frequentata nell’attività concertistica. In definitiva, è un nome importante del mondo concertistico internazionale, per meriti suoi e del mercato. Ma questo è sufficiente per assegnargli un Leone d’Oro? O non si deve piuttosto pensare che il premio sia un tardivo (e superato) riconoscimento per l’evento top nella vita di Keith Jarrett, quel concerto oggi circonfuso nella leggenda, tenuto a Colonia il 24 gennaio 1975, quattro pezzi improvvisati per una durata di 67 minuti (così la registrazione live ECM su iTunes) che gli hanno garantito gloria e ricchezza, con le vendite del disco – fatto unico nel jazz – salite sopra i 4 milioni di copie?

Sembra quasi che la Biennale si vergogni dei musicisti cosiddetti classici, che si ostinano a esserci ancora. O voglia espiare l’incomunicabilità e la freddezza degli anni feroci dell’avanguardia, anche se adesso la nuova musica segue strade molto più comunicative e coinvolgenti. Nell’ultimo decennio il trend sembra chiaro: inizialmente e secondo tradizione i Leoni sono andati a grandi personaggi come Boulez e Kurtág, Rihm e Eötvös. Poi è stato il turno degli Aperghis, con le sue escursioni teatrali e dei Tan Dun, con le sue esotiche colonne sonore. Ora è la volta di Keith Jarrett, metafisico insofferente che ha conosciuto lontani trionfi popolari. L’anno prossimo toccherà a Claudio Baglioni?

Foto: Keith Jarrett a Juan-lesPins (Francia) nel 2003 – Wikimedia Commons

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