Opera

Nel videomapping poco Monteverdi

"L'Orfeo" proposto dal festival Vicenza In Lirica al teatro Olimpico utilizza le nuove tecnologie illuminotecniche. La novità ha indubbie potenzialità ma qui non incide più di tanto anche per la debolezza di una regia che trascura il dramma e ignora la parte principale del mito, concentrandosi sul tema dell'identità sessuale del protagonista. Bene la parte musicale, con l'appassionata e vivida direzione di Francesco Erle e una discreta compagnia di canto

Due anni fa, la prima assoluta al teatro Olimpico di Orfeo ed Euridice di Gluck aveva visto la riuscita convergenza fra la drammaturgia musicale severa ed essenziale del compositore settecentesco tedesco e lo spazio scenico monumentale e aulico ideato da Palladio. Quello spettacolo era spoglio e intenso, nitido ed elegante. Definito “semiscenico”, sembrava quasi postulare che quella fosse una condizione per molti aspetti ideale. In questi giorni, un altro Orfeo, quello archetipico di Claudio Monteverdi (1607), ha completato questo specifico progetto operistico pensato per l’Olimpico dal festival Vicenza In Lirica, di indubitabile spessore culturale e musicale, senza che però il suo risultato si possa dire altrettanto felice.

La grande novità dell’allestimento firmato da Andrea Castello – il dato che ne faceva comunque uno spettacolo “da festival” – era l’uso della tecnologia del videomapping in funzione scenografica. Affidata all’agenzia Zebra Mapping con la supervisione di Mauro Zocchetta, la sperimentazione si basava sull’utilizzo di un ampio corredo di incisioni di Neri Pozza, le sue celebri Vedute di Vicenza, con le quali, almeno nell’intenzione, si puntava a fare della “frons scenae” olimpica (e dei velari posti a chiudere la porta regia e le due che la affiancano) una sorta di schermo monumentale capace di andare oltre la fissità palladiana (la prospettiva scamozziana risulta invece esclusa tranne la sua fuggevole apparizione nel finale).

Dal punto di vista puramente effettistico, più di qualche soluzione illuminotecnica è parsa suggestiva, per la capacità di far emergere il tessuto architettonico palladiano includendo o escludendo qualsiasi suo elemento: capitelli, colonne, statue… Risultati che con le luci tradizionali è impossibile raggiungere. Quanto alla “narrazione per immagini”, però, il risultato è stato molto meno incisivo, perché il gioco di movimento e di ingrandimento (spesso molto spinto) dei particolari ha finito per nuocere alla chiarezza, delineando un corredo di soluzioni visive astratte in bianco/nero e sfumature di grigio che talvolta sono risultate perfino monotone e spesso poco “leggibili”. Quasi mai si è concretizzata l’idea-forza dei responsabili dello spettacolo, evidentemente tale solo sulla carta: sostituire la città-ideale rappresentata nelle prospettive di Scamozzi con la città reale incisa da Neri Pozza.

Si trattava di un esperimento: la tecnologia del videomapping per gli spettacoli all’Olimpico ha sicuramente diritto a qualche prova di appello, a una messa a punto meno condizionata da problemi di tempo e da ristrettezze finanziarie, purché parta da un’idea registica efficace, come non sembra essere avvenuto per questo Orfeo, nel quale si sono accavallate linee d’interpretazione troppo distanti fra loro per diventare concretamente significative. La prima era l’idea che il mito si svolgesse nel metaforico contesto di una città distrutta dalla guerra e quindi avviata sulla via della ricostruzione. Contesto attualizzato, spostando la vicenda nel primissimo dopoguerra dopo il secondo conflitto mondiale (ovvero l’epoca di molte delle incisioni di Neri Pozza). L’evidenza maggiore di questa scelta era nei costumi (Roberta Sattin) molto genericamente primi anni ’50, dei quali forse si possono salvare quelli di Euridice, stile haute-couture Dior. Ma quell’Orfeo in bianco damascato, quella messaggera con lungo strascico nero ma con baschetto sbarazzino sul tailleur, quel coro con gli uomini che ostentano bretelle e gilet sulle camicie con maniche arrotolate e le donne gonne lunghe e calzettoni, erano francamente piuttosto incongrui.

L’altra idea registica riguarda l’interpretazione che Castello dà del mito di Orfeo come “percorso che lo porterà a prendere coscienza della propria identità sessuale”. Cioè omosessuale. Vero è che in Ovidio, e poi in Poliziano, dentro al mito del cantore tracio c’è anche quello fondativo dell’omosessualità nel mondo greco: dopo avere perso Euridice, Orfeo non vorrà più conoscere donna e si rivolgerà agli uomini. In tale versione, per questo “oltraggio” le Baccanti lo uccideranno e lo faranno letteralmente a pezzi. Questa scena, però, anche se esiste nella stesura originale del libretto di Alessandro Striggio, non è mai stata musicata: Monteverdi vede il mito in altro modo e preferisce chiudere l’opera con l’apoteosi di Orfeo, chiamato da Apollo in cielo. Castello ignora questo dato di fatto e affida a un danzatore mimo, vestito solo di un brutto costume color carne, il compito di simboleggiare la proiezione dei dubbi e delle incertezze di Orfeo sulla propria identità sessuale: una presenza estranea e invadente, troppo accentuata nei primi due atti, che non ha alcun rapporto con la partitura come non lo ha nel clou tragico dell’opera, la definitiva perdita di Euridice. Che il danzatore mimo sembra quasi provocare, con la sua sola presenza in lontananza.

Poco Monteverdi nella regia, insomma, ed è un peccato. Molto Monteverdi invece nell’interpretazione musicale curata da Francesco Erle, che ha studiato partitura e documenti per arrivare a commisurare con le moderne esigenze dell’ascolto il rigore della ricostruzione filologica. Il risultato è un’esecuzione di grande risalto sia sul versante strumentale, reso in tutta la sua ricchezza, multiformità espressiva e dinamicità (in crescendo di efficacia la compagine strumentale) che su quello corale, con la Schola San Rocco che ad onta del fatto di essere molto statica (ma anche questo è un problema di regia) musicalmente è quanto mai duttile ed efficace. Un Monteverdi lontano dal sussiego accademico, appassionato e profondo. Espressivamente multiforme e a tratti sorprendente, anche se magari non era proprio necessario che le grida degli Spiriti Infernali nel quarto atto (“Qui si fa strepito dietro la tela”, si legge nel libretto) assomigliassero a quelle di una masnada di ultrà allo stadio…

Nella compagnia di canto in evidenza le belle, educatissime voci vicentine del soprano Giulia Bolcato (che cesella la parola nel triplo ruolo della Musica, di Euridice ed Eco) e del contralto Valeria Girardello, dolente Messaggera. Orfeo è Marco Saccardin, che si muove in scena con una circospezione che lo fa sembrare a disagio, ma canta in bello stile ed ha la voce adatta al ruolo, anche se non la stessa passione che Erle profonde dal podio. Efficaci la Proserpina di Arianna Lanci e la Speranza di Anna Bessi, apprezzabili i comprimari, tutti validi cantori selezionati con lungo lavoro dagli organizzatori.

Teatro al completo, accoglienze entusiastiche alla fine. In prima fila fra gli sponsor e i sostenitori del festival anche la cosiddetta “drag queen” Madame Sìsì, al secolo Carlo Tessari, titolare di un locale a Desenzano dove il direttore artistico Andrea Castello ha fatto conoscere l’opera. Una prima anche questa: non ha cantato né suonato, ma una parte del pubblico ha acclamato pure lei.

Foto © Luigi De Frenza

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