Nabucco, ossia La nascita di una nazione. L’opera giovanile di Verdi, che le cronache salutano come lo spettacolo del rilancio dell’Arena, per Arnaud Bernard è così: un kolossal dagli effetti cinematografici, una narrazione fantasiosa che volutamente espunge molte caratteristiche della drammaturgia verdiana – su tutte, la centralità del tema religioso – per privilegiare una lettura politica. Quella che si può in fondo individuare nella coralità della vicenda, ma per sottolineare la quale, la storia autentica viene per così dire “aggiustata”, si tratti di quella musicale o di quella generale.
Assoluta protagonista di questo nuovo allestimento firmato dal regista francese è la spettacolare macchina scenica inventata da Alessandro Camera, una riproduzione della Scala che ruotando a vista permette di passare dagli esterni, ingombri di barricate, agli interni, con tanto di palcoscenico, palchi e loggione. Spariscono il tempio di Gerusalemme e i giardini pensili di Babilonia. Non si vedono neanche ebrei e assiri, per almeno metà dello spettacolo. Ci si trova infatti a Milano mentre infuriano le Cinque Giornate, nel marzo 1848. E allora, popolo in rivolta da un lato e truppe asburgiche occupanti dall’altro. Ed è certo molto originale che a comandare queste ultime sia una donna, di nome Abigaille, vestita come un ufficiale degli ussari. Il Gran Sacerdote ha la redingote di uno dei capi politici della rivoluzione; quando finalmente arriva Nabucco, tutti riconoscono i favoriti e la divisa di un celebre ritratto dell’imperatore Francesco Giuseppe. Risalente peraltro a 60 anni dopo gli eventi.

Ma si sa, le favole hanno ragioni che la verosimiglianza storica non ha. Poco importa che in realtà Nabucco non abbia avuto nessun particolare ruolo “patriottico” nelle vicende risorgimentali italiane (altre sono le opere che lo hanno incarnato): Bernard confeziona una sua personalissima storia e punta a meravigliare con gli effetti e ad entusiasmare con la grandiosità, secondo tradizione areniana. Così facendo, inanella anche qualche “record”, almeno a memoria del vostro cronista. Mai si erano sentite in anfiteatro tante realistiche sparatorie come nel primo atto, quello della battaglia: cannonate, scariche di fucileria, colpi di pistola. Inevitabili – di questi tempi – i tranquilizzanti annunci (è tutto finto) rivolti durante gli intervalli al pubblico dentro e ai turisti in piazza Bra. Chiesti e ottenuti dal questore, a scanso di equivoci. Mai si erano visti sventolare tanti tricolori: nel primo atto, nel terzo, quando il coro canta “Va’ pensiero”, soprattutto alla fine. Un tripudio patriottico che meriterebbe anche un minimo di precisione in più: se bandiere devono essere, almeno siano quelle d’Italia, con bande verdi, bianche e rosse verticali a partire dall’asta, e non ungheresi, con bande orizzontali, come se ne sono viste molte. Non giureremmo che siano un record gli educatissimi dieci-cavalli-dieci, che volteggiano avanti e indietro e raccolgono ammirati applausi come a Piazza di Siena; non lo sono di sicuro le vastissime masse che affollano la scena specialmente durante il convulso primo atto. Qui Bernard in qualche modo rende omaggio a Zeffirelli, senza peraltro raggiungere l’impareggiabile nitidezza di racconto del regista fiorentino, restando lontano dalla sua capacità di “mettere a fuoco” gli interpreti e di fare emergere il loro canto.
La coerenza della narrazione del regista francese – pur nei limiti che abbiamo indicato – diventa qualcosa di molto più complesso nel terzo e nel quarto atto, che largamente si svolgono all’interno della Scala durante la rappresentazione di uno spettacolo. In scena ci sono degli ebrei, lo si capisce dal fatto che sono radunati intorno a una grande menorah (il candelabro a sette bracci). E sono loro che cantano “Va’ pensiero”, anche se dovrebbero essere, a rigore, i patrioti che tanto si sono dati da fare nei primi due atti. Il pezzo viene subito ripetuto non perché il pubblico in anfiteatro lo voglia davvero, ma come elemento dello spettacolo nello spettacolo (storicamente non fu così: alla prima assoluta dell’opera alla Scala, 9 marzo 1842, il coro non fu ripetuto) cioè per l’entusiasmo del pubblico nei palchi della Scala, mentre in platea gli ufficiali austriaci sono alquanto stizziti. Sta di fatto che l’esecuzione del coro come la si è potuta ascoltare l’altra sera è stata fra le meno emozionanti in tante edizioni di Nabucco, anche se il coro dell’Arena si è battuto da par suo e anche se sul podio c’era Daniel Oren, che altre volte ne aveva consegnato memorabili esecuzioni. Ruvida e meno meditata del solito la poetica introduzione strumentale, un po’ formale e distratta la partecipazione emotiva, a causa del contesto registico, poco evidente quel canto a fior di labbra di cui il coro (quest’anno istruito da Vito Lombardi) è notorio maestro.
In un complicato gioco di spettacolo nello spettacolo, il racconto di Arnaud Bernard giunge alla fine senza trovare davvero una logica stringente, ma sempre privilegiando il colpo di scena. Il Nabucco-Cecco Beppe, una volta convertitosi ricompare sulla scena finta (quella della Scala) vestito da dignitario ebreo. La sconfitta Abigaille assiste sbigottita dalla platea alla sortita di un suo alter ego che canta “Su me, morente, esanime, discenda il tuo perdono”. Poi si allontana scortata dagli agenti della sicurezza asburgica. Intanto, fuori dalla Scala, la rivoluzione ha vinto e sventolano i tricolori.
Scrosciano anche gli applausi del pubblico che ha riempito ogni settore dell’Arena, ottimo viatico per quello che vuole essere il “festival della rinascita” (così è stato definito) e che sta ottenendo – a quel che è stato affermato dal sovrintendente Giuliano Polo – ottimi quanto indipensabili riscontri di botteghino. Il successo accomuna anche tutti i protagonisti vocali della serata. Nei panni di Abigaille c’era Tatiana Melnychenko, apparsa peraltro in difficoltà nella zona acuta della tessitura, protagonista di una linea di canto approssimativa nella pronuncia e non adeguatamente tagliente e drammatica. Nabucco aveva la voce interessante di George Gagnidze, in crescendo per efficacia e tenuta anche se più portato all’introspezione (ragguardevole il suo “Dio di Giuda”) che alla regale autorevolezza. Buona voce, forse un po’ “corta” per l’Arena, ha messo in mostra Stanislav Trofimov, uno Zaccaria intenso ma forse inevitabilmente poco ieratico: così lo voleva il regista. Interessante il timbro mezzosopranile di Carmen Topciu, Fenena, che fa bella figura con la sua Aria nel sottofinale; secondo le aspettative l’Ismaele di Walter Fraccaro, che privilegia un fraseggio dalle accentuazioni quasi veristiche, non propriamente in stile. Oren maneggia la partitura con l’esperienza e la qualità che gli derivano dal suo lungo corso sia come interprete verdiano che come direttore in Arena. Tempi vivaci, colori apprezzabili, emozione contenuta rispetto al fantasioso kolossal che si svolge sotto i suoi occhi e che talvolta gli dà il suo bel da fare per riuscire a far sentire l’orchestra.
Si replica dal 29 giugno per 11 serate.
Foto: ©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona