Opera

Donizetti, pazzia delitti e vocalizzi

"Lucia di Lammermoor" alla Fenice: protagonista-rivelazione il soprano Nadine Sierra, neanche trentenne, e ottima in generale la parte musicale, guidata da Riccardo Frizza. Lo spettacolo firmato da Francesco Micheli manca invece l'obiettivo, perché esaspera la cornice ossessiva, cupa e violenta della storia, che nell'opera è sublimata dalle invenzioni di Donizetti, con le seduzioni del belcanto

In Lucia di Lammermoor la violenza dei sentimenti e delle azioni vive musicalmente, e soprattutto vocalmente, su di un piano di totale straniamento. La poetica del belcanto che pervade la partitura di Donizetti è infatti ideologicamente avulsa da ogni realismo e realizza un meccanismo drammaturgico anomalo, quasi paradossale. L’orrore e la cupezza di una vicenda in cui morte e follia dominano praticamente dall’inizio sono riscattati e superati grazie alla eleganza incontaminata (e irrealistica) della melodia, alla ricchezza di colori con cui l’orchestra affianca i personaggi e ne indaga la psicologia, al trionfo di una vocalità fascinosa non solo per la sua cifra virtuosistica, di siderale astrazione, ma specialmente per la sua capacità di realizzare un ideale di lirica purezza che sta agli antipodi del racconto e ne costituisce perciò la vera e propria “catarsi”. Un antidoto, in certo modo, al romanticismo nella sua versione più oscura e inquietante, di cui trasuda il gettonatissimo soggetto originale, il romanzo scozzese di Walter Scott, che negli anni precedenti a Lucia (che è del 1835) aveva già suscitato l’attenzione di tanti operisti, non solo italiani.

Il terrore e l’oscurità, il mistero ostile di una natura infida, la ferocia inesorabile degli eventi, gli schianti mentali indotti da una violenza che prima di diventare sanguinaria è innanzitutto psicologica, dentro a una cornice di visioni – o allucinazioni – spaventose e incessanti, sono quindi elementi necessari ma non esclusivi per mettere in scena quest’opera, a rischio di caricarla di una valenza decadente dalla quale è lontanissima. Di non riconoscere che la rovente stagione verdiana è ancora di là da venire, e che si è nel momento in cui, tramontata la fulgida stella di Rossini, il melodramma italiano si trova sotto un cielo vuoto – per parafrasare Marguerite Yourcenar. Che Donizetti riempie alla sua maniera, esaltando un pensiero musicale di sublime inattualità.

“Lucia di Lammermoor” alla Fenice: la scena della follia

Purtroppo così è avvenuto alla Fenice, dov’è stata presentata una nuova edizione di quest’opera. Con la collaborazione dello scenografo Nicolas Bovey, il regista Francesco Micheli disegna infatti una Lucia a senso unico, in cui la vicenda (trasportata al primo Novecento grazie anche ai costumi di Alessio Rosati) diventa l’esasperata e quasi allucinata rappresentazione dello sfacelo interiore ed esteriore dei personaggi. Dall’inizio alla fine, risolto l’elemento naturalistico con un’immagine sullo sfondo, tutto si svolge in un claustrofobico interno tra gli anfratti di una catasta di vecchi mobili, che nell’atto finale incombono sospesi sui personaggi. Il coro si muove come una piccola falange minacciosa e oppressiva, che incombe soprattutto su Lucia, ma anche sul suo innamorato, Edgardo. Il terzo protagonista della tragedia, il fratello dell’eroina, Enrico, non esce praticamente mai di scena (tranne che nell’ultimo atto), presenza fantasmatica mentre i due amanti cantano la speranza del loro amore contro la faida familiare che li condanna a morte. In questa opprimente e alla fine anche monotona narrazione per immagini, le scelte musicali di Donizetti restano un corpo estraneo: lirismo, passione, fantasia, speranza tradita e morte disegnano nella partitura un percorso estraneo alla drammaturgia realizzata da Micheli. Che gira a vuoto anche e soprattutto nel momento clou, la scena delle follia. Qui tutto è scenicamente risolto nella freddezza di un maniacale gioco con i bicchieri su un tavolo, che alla fine della cabaletta molto ovviamente la primadonna si rovescia addosso uno dopo l’altro, pieni come sono di un liquido di colore sanguigno. L’esecuzione alla Fenice prevede qui l’uso della glassarmonica (secondo la versione prima di Donizetti, peraltro poi modificata a favore del flauto), ma non basta certo evocare i “bicchieri musicali” per realizzare teatralmente il senso musicale e drammatico insito nell’uso di uno strumento così particolare. In quel che il regista fa fare alla protagonista – salire e scendere continuamente dal tavolo – non c’è nulla dell’aura misteriosa di cui parla Philip Gossett né si coglie il senso di “evocazione dell’arcano” (come pure è stato detto), che era nelle intenzioni del musicista con l’utilizzo della glassarmonica.

Se lo spettacolo non centra il bersaglio, lo centra invece, e magnificamente, l’esecuzione musicale. Che regala fra l’altro, fra molte ottime cose, anche la rivelazione nei panni della protagonista, di un giovane formidabile soprano americano, Nadine Sierra, che si era già segnalata come Gilda nel Rigoletto alla Scala, ma qui impone una cifra tecnica e musicale davvero di rilievo. Inizialmente il colore vocale di questa cantante ventinovenne non risulta particolarmente seducente, ma ben presto si coglie che la sua linea vocale è preordinata alla purezza, tenuta, efficacia del canto in sovracuto, che domina nella parte di Lucia. In tutta l’ultima ottava, e su su fino al Mi bemolle della scena della follia, Sierra non mostra cedimenti, non alterazione di emissione, di colore, di controllo, non incertezza nell’agilità. Lo stile è puntiglioso (variazioni e abbellimenti sono quasi sempre quelli della “vulgata” tardo ottocentesca di Nellie Melba), la caratterizzazione scenicamente piuttosto asettica, vocalmente sontuosa, con qualche spazio ancora per l’introspezione lirica. Al suo fianco, il tenore Francesco Demuro è un Edgardo generosissimo in acuto, più propenso al versante amoroso del personaggio che a quello drammatico, in grado di offrire una fascinosa eleganza belcantistica al suo personale “Liebestod”, la celeberrima cabaletta “Tu che a Dio spiegasti l’ali” e in generale detentore di una linea di canto di emozionante immediatezza. Altrettanto valido Markus Werba, baritono dalla splendida vena cantabile che fraseggia con ricchezza di sottigliezze espressive e delinea un Enrico tragico, soffertamente spietato. Positivo Simon Lim, basso di bel timbro e convincente duttilità per il ruolo del religioso Raimondo Bidebent. Discreti i comprimari Francesco Marsiglia (Arturo), Angela Nicoli (Alisa) e Marcello Nardis (Normanno), eccellente il coro istruito da Claudio Marino Moretti, che non fa una piega e rende al meglio anche quando la regia lo fa cantare sdraiato a terra in posizione supina.

Riccardo Frizza ha guidato il tutto dal podio con sicura scelta stilistica, che rende ragione delle radici rossiniane di quest’opera soprattutto nei cori e nel Quartetto del secondo atto, ma non manca di lumeggiare quanto certe scelte donizettiane nelle atmosfere e nei tagli formali abbiano costituito un punto di riferimento per Verdi. Impeccabile l’accuratezza lucida e spesso brillante nei dettagli strumentali (in ottima forma l’orchestra della Fenice) e sempre ricco di sfumature un fraseggio lontano dalla frenesia nei tempi.

Teatro gremito, accoglienze trionfali per i cantanti e il direttore, con standing ovation per Nadine Sierra.

Foto © Michele Crosera

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