Quale sia la distanza fra Beethoven e Schubert, nonostante la loro vicinanza cronologica (il secondo morì un anno e mezzo dopo il primo, pur avendo quasi trent’anni di meno), si è capito bene grazie al concerto conclusivo della stagione dell’Orchestra del Teatro Olimpico. Distanza di sensibilità e di soggettività espressiva, pur nello stesso “recinto”, quello della scrittura sinfonica secondo lo stile classico. Anche distanza di “mentalità”, oltre che ovviamente di carattere. Come se la lunga esperienza viennese di Beethoven, che era un tedesco di Renania ma visse nella capitale dell’Impero da prima che vi nascesse il collega, non fosse stata sufficiente ad avvicinarlo al viennese purosangue che era Schubert.

Il programma impaginato da Umberto Benedetti Michelangeli era volto a illuminare i primi passi nell’ambito orchestrale di entrambi i musicisti.Da un lato, preceduto dal terzo Intermezzo dalle musiche di scena per Rosamunda, principessa di Cipro, quel gioiellino che è la Quinta Sinfonia schubertiana; dall’altro la turbinosa Seconda di Beethoven, nata nei mesi della più terribile crisi umana del musicista, definitivamente consapevole della sua sordità. Una pagina che tuttavia non risente affatto della sua situazione personale e lo mostra semmai intento a saggiare i possibili ampliamenti del linguaggio sinfonico, pur ancora nel sostanziale rispetto della forma e della tradizione (che a Vienna significava più Haydn che Mozart). Certo la differenza fra la Seconda e la Terza (l’Eroica), che seguirà di un paio di anni, appare abissale. Ma questo serve a capire che l’evoluzione creativa di un artista come Beethoven non ha quasi mai seguito percorsi lineari e progressivi, ad onta della comoda partizione della sua musica in tre periodi, stabilita dalla critica romantica. E infatti, nei mesi in cui componeva la Seconda, Beethoven aveva già cominciato ad abbozzare anche la Terza: due mondi distanti anni luce.
Tornando a Schubert, per cogliere la sua originalità si può por mente al fatto che quando egli scrisse la Quinta (1816), Beethoven aveva già scritto tutte le sue Sinfonie tranne la Nona. Eppure non si può parlare di influsso diretto: il ragazzotto viennese di 19 anni, se doveva scrivere una Sinfonia lo faceva a modo suo, anche se sicuramente era impressionato dalla personalità e dal peso culturale del suo illustre collega. E nonostante il fatto che di sicuro conoscesse pagine capitali come appunto l’Eroica, ma anche la Quinta, la Pastorale, la Settima. Il “modo suo” è una leggerezza di poesia stupendamente fine a se stessa, in questo caso senza pensieri molesti o fuorvianti (ma anche lui ne conoscerà il peso, eccome). Questo clima psicologico è solo apparentemente di stretta osservanza classicista. In realtà, Schubert è già oltre perché non c’è razionalità od oggettività nel suo stile, la sua semplicità è voluta e soggettiva, un dato psicologico intimo. Nasce qui una linea del Romanticismo totalmente separata da quella che origina dal volontarismo etico o eroico di Beethoven, del quale nella Seconda si sentono le prove, condotte specialmente sul piano del rapporto fra le sezioni orchestrali, fra i colori, fra i tempi e i contrasti dinamici, senza un apparato melodico di particolare ricchezza. Nella Quinta schubertiana, invece (come pure nelle musiche per Rosamunda) il punto di partenza è sempre un’intuizione melodica, sciolta nel colore di un’orchestra di estrema semplicità (archi, oboi e corni), cui solo il flauto dà un tocco aggiuntivo di grande significato.
Umberto Benedetti Michelangeli si abbandona con eleganza a questa tenera poesia, privilegiando un fraseggio molto morbido, quasi flou, che smussa i contrasti dinamici, evita la brillantezza fine a se stessa per cercare il dettaglio rivelatore all’interno dell’invenzione schubertiana. Probabilmente un po’ danneggiata dalla non facile acustica del Teatro Comunale, questa linea interpretativa lungi dall’essere dimessa è in realtà perfino “progressiva”, pur non essendo particolarmente redditizia nella sua assenza di ogni effetto, perché mette a fuoco la particolarità del caso-Schubert nell’Ottocento tedesco. Gli effetti, invece, sono d’obbligo nella Seconda di Beethoven: nitidezza dei fiati (ad organico completo: flauti, oboi, clarinetti, fagotti), brillantezza crescente degli ottoni, incisività dei quasi onnipresenti timpani, asciuttezza vigorosa degli archi, con grande chiarezza dei ruoli fra le sezioni. La OTO sembra un’orchestra diversa per mole di suono, capacità di accensione drammatica della frase, anche se Benedetti Michelangeli, come nel suo stile, non sceglie mai tempi troppo estroversi, visto che comunque preferisce la riflessione all’effetto fine a se stesso. È il Classicismo alle soglie della sua metamorfosi, quello che viene dipinto in questa interpretazione del direttore bresciano, ma senza strappi, anche se l’energia è di notevole rilievo. E l’orchestra del Teatro Olimpico gli corrisponde con precisione e ricchezza di suono.
Pubblico folto e prodigo di applausi cordialissimi.
Foto © Angelo Nicoletti