Opera

“Capuleti”, l’idillio tragico di Bellini

L'opera di Bellini sulla tragedia di Romeo e Giulietta, grande vetrina della potenza drammatica delle sue melodie, riproposta al Filarmonico di Verona nell'allestimento di Arnaud Bernard, che fa svolgere la vicenda in un museo in allestimento. Positiva la direzione dell'esperto Fabrizio Maria Carminati, compagnia di canto con il soprano Irina Lungu in bella evidenza. Ottima la prova del coro areniano

In una cronaca della prima rappresentazione assoluta de I Capuleti e i Montecchi alla Fenice (11 marzo 1830) si legge che alla conclusione dell’opera «Piovevano sonetti e immagini di Giulietta e Romeo, facevansi pel teatro volare colombe e altri uccelli, gli applausi e lo sventolare di fazzoletti di seta colle immagini delle due primedonne festeggiate non ebbero limite alcuno». Scene di esaltazione non così straordinarie: quello era un tempo in cui il melodramma era un elemento culturale e sociale fondamentale della vita italiana e Bellini interpretava il gusto del pubblico con una sensibilità e uno stile infallibili, imponendosi come il più plausibile erede del genio rossiniano. Secondo una prassi tutt’altro che rara, il compositore catanese aveva avuto non più di un mese e mezzo per creare l’opera, a partire da un libretto di Felice Romani, autore prolifico e di grande esperienza che già si era cimentato cinque anni prima con la “lagrimevole storia” degli infelici amanti di Verona. Se il letterato dovette cambiare più di qualcosa per i suoi committenti alla Fenice (e infatti la vicenda è alquanto lontana dal plot shakespeariano, semmai ispirata più agli antecedenti italiani di Bandello e da Porto), Bellini non si peritò di fare quel che facevano tutti i suoi colleghi, pescare a piene mani nel suo “archivio” personale.

La musica dei Capuleti deriva quindi in larga parte da quella di un’opera di appena un anno prima, una Zaira che era caduta a Parma. E uno dei passi più celebri, la cavatina di Giulietta nel primo atto (“O quante volte”) discende addirittura dalla prima prova operistica del compositore, il saggio di conservatorio Adelson e Salvini, che risale al 1825. Adattamenti e “autoimprestiti” geniali (del resto, l’insuperato maestro in questa pratica aveva nome Rossini), ma anche coraggiosi. Perché riproporre una musica che non era piaciuta a distanza di un anno aveva molto dell’azzardo. Eppure funzionò, e qualche anno più tardi lo stesso Bellini avrebbe parlato dei Capuleti come dei “vendicatori” della oggi sconosciuta Zaira. Funzionò per un’alchimia impredittibile eppure concretissima, che fece “precipitare” nei personaggi di Romeo e Giulietta il senso dell’idillio tragico (così lo definisce Rodolfo Celletti) portato dalla scrittura vocale belliniana, che sull’impronta belcantistica di chiara marca rossiniana innesta la sua sublime poesia melodica, così espansa e “assoluta” da fare, per così dire, il vuoto intorno a sé. Vuoto drammatico: l’opera vive di momenti sublimi ma quasi slegati fra loro. Pieno lirico e sentimentale, che anzi da quel vuoto trae una forza tutta speciale, esaltando l’astrazione stilistica e la suprema eleganza dell’invenzione di questo compositore.

Ben presto travolti da un’altra concezione di melodramma, sia in Italia (Donizetti, Verdi) che all’estero, I Capuleti e i Montecchi sono scomparsi dalle scene per quasi un secolo, prima di conoscere una “rinascita” che corrisponde anche all’affermazione di una grade generazione di interpreti, nella seconda metà del Novecento. Oggi non è raro incontrarli nelle locandine. Al Filarmonico di Verona sono in scena in questi giorni, a tre anni e mezzo appena dalla loro ultima apparizione, che peraltro era stata preceduta da un’assenza durata una trentina d’anni. Lo spettacolo è una coproduzione con la Fenice, implicita risposta a chi crede che le due Fondazioni liriche del Veneto non dialoghino e con collaborino, e lo firma Arnaud Bernard, con la collaborazione di Alessandro Camera per le scene e Carla Maria Ricotti per i costumi. L’idea, che in fondo ben corrisponde alla stilizzazione spinta dell’opera, è quella di rappresentare la vicenda all’interno di un museo in allestimento, con i personaggi che in qualche modo “escono” dai dipinti appesi alle pareti, prima di ritornarvi nella magnifica scena finale, che riporta dentro a una grande cornice dorata, in fermo immagine, la tragica scena al sepolcro di Giulietta. La presenza di “personaggi” fuori dalla storia che si affaccendano nei lavori di preparazione del museo (elettricisti, tappezzieri, restauratori, addetti alle pulizie…) è forse un po’ troppo insistita, anche perché il loro spazio è soprattutto dentro alle pagine strumentali di Bellini, che finiscono così per risultare fuori contesto, ma nell’insieme il progetto è funzionale ed efficace. E soprattutto lontano da ogni maniera classico-romantica, sempre a rischio di stucchevolezza.

Come nel novembre 2013, sul podio c’è Fabrizio Maria Carminati, che illumina il “debito” rossiniano della partitura nella stringatezza dei tempi veloci e nelle belle sottolineature timbriche (corni, clarinetti, arpa hanno un ruolo essenziale nella tinta qui delineata da Bellini), senza tuttavia rinunciare a sottolineare la sensibilità nuova di un lirismo fremente e profondo. L’orchestra dell’Arena lo segue con duttile efficacia e il risultato è un Bellini fatto di sfumature ed eleganza.

Nel ruolo “en travesti” di Romeo c’è il mezzosoprano giapponese Aya Wakizono, protagonista un anno fa al Filarmonico nella Cenerentola di Rossini, che ha confermato il suo colore vocale interessante e la predisposizione all’agilità, offrendo il meglio nella zona centrale della tessitura, assai meno in quella bassa, anche se in vari momenti Bellini (che scrisse la parte per la celebre Giuditta Grisi) prevede significative incursioni nel grave. Molto bene Irina Lungu nel ruolo di Giulietta, risolto con impeccabile controllo, tenuta e precisione in acuto, sfumature di grande espressività. Il tenore Shalva Mukeria ha voce bene impostata, svetta con discreta facilità e fraseggia con proprietà, solo palesando qualche mancanza di peso nella zona bassa. Fra le voci gravi, meglio Romano Dal Zovo, Lorenzo, del ruvido Luiz-Ottavio Faria, un Capellio anche scenicamente sopra le righe. Misurato e preciso il coro istruito da Vito Lombardi, che ben sostiene un ruolo a tutti gli effetti protagonistico.

Consensi pieni e prolungati, con ripetute chiamate per tutti i protagonisti.

Foto © Ennevifoto

Condividi questo articolo:
Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email