Concerti

Sol Gabetta, il violoncello che canta

La violoncellista, accompagnata dal pianista Bernard Chamayou, fa il tutto esaurito al Teatro Comunale di Vicenza nella serata della finale di Sanremo Festival. Programma con Schumann e Chopin oltre a Beethoven, concluso dal colore folclorico delle "Canciones Populares" di Manuel de Falla

Un sabato sera non lontano dal culmine del Carnevale, mentre a Sanremo e sugli schermi televisivi impazza l’interminabile finale del Festival della canzone italiana (durata quasi cinque ore, neanche fosse il Tristano…). Non proprio l’ideale, per proporre al Teatro Comunale un concerto da camera con violoncello e pianoforte. Eppure Vicenza riesce spesso a stupire, e l’occasione è risultata perfetta per un contropiede musicale degno di nota. Sala grande al completo, il che vuol dire 900 persone o poche di meno. Chi ha l’età per avere frequentato i concerti di musica classica quando si tenevano all’auditorium Canneti, una trentina d’anni fa, può capire meglio. Si tratta del triplo del pubblico di allora. Nei dati declinanti del Nordest, questa è una crescita che ha viaggiato e viaggia ancora. Forse non dappertutto con gli stessi numeri, in Veneto, ma il caso Vicenza è eclatante. E del resto, gli organizzatori del concerto di cui si parla, la Società del Quartetto (che ha appena compiuto 107 anni), sono anche quelli che hanno il record di abbonamenti per questo tipo di proposte musicali.

Si dirà: ha funzionato l’attrazione dei nomi noti e dei personaggi “glamour”. Vero, ma solo in parte. La violoncellista Sol Gabetta, affascinante trentaseienne argentina al suo debutto vicentino, è indubbiamente sulla cresta dell’onda, ma trattasi di interprete che solo negli ultimi anni ha visto la sua carriera spiccare un notevole balzo, grazie ad alcune presenze di prestigio e collaborazioni internazionali di alto livello (con orchestre e direttori importanti). Quanto al suo accompagnatore al pianoforte, il francese Bertrand Chamayou, che dimostra più o meno la stessa età, la sua fama è affidata alla formula ricorrente delle agenzie, ripresa pari pari nel programma di sala: “uno dei più interessanti pianisti francesi della sua generazione”. Una notorietà ristretta alla Francia e a chi è nato tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, non è che sia proprio qualcosa di globale. Il che beninteso non toglie che si tratti di un ottimo musicista che ha dimostrato non solo di avere una spiccata sensibilità cameristica (con la capacità di tenere testa all’esuberanza di Gabetta, nel senso di misurare i suoi interventi con duttile efficacia di tempo e di suono), ma anche di saper esprimere una qualità stilistica ben meditata, riflessa in un suono mai banale.

Tornando al discorso iniziale, forse non è così azzardato pensare che al di là degli interpreti ci sia stato qualche richiamo anche per il carattere della serata: un primo piano su uno strumento bellissimo, dalla voce multiforme e straordinariamente vicina a quella umana, ma raramente protagonista principale, anche in ambito cameristico; e un programma largamente ottocentesco, con i nomi di Schumann e Chopin in apertura e chiusura e quello del Beethoven giovane (la prima Sonata è datata 1795-96) nel mezzo, a spiegare insieme la difficoltà e il fascino del dialogo a due fra la tastiera pianistica e le corde del violoncello.

Sol Gabetta ha nell’eleganza cantabile, che privilegia un suono limpido, morbido, discretamente chiaro, il tratto forse più evidente e coinvolgente della sua musicalità. Il suo Schumann (i Cinque Pezzi op. 102) si tiene lontano dalla passione e dall’energia che pure queste pagine ben motiverebbero, per privilegiare un approccio quasi classicistico, misurato anche se non certo privo di sfumature e di soprassalti espressivi. Il Beethoven della Sonata op. 5 n. 1 è stato risolto soprattutto in brillantezza, accuratamente smussando molti contrasti dinamici, per privilegiare una coinvolgente pienezza timbrica, cui bene corrispondeva il tocco di Chamayou. Con queste premesse, l’esecuzione della Sonata op. 65 di Chopin non poteva che indirizzarsi nella linea interpretativa che in effetti i due musicisti hanno ben rifinito: gusto sicuro nel fraseggio, misura definita per evitare sentimentalismi troppo accentuati, in effetti estranei a questa pagina introspettiva e pensierosa.

Il pubblico ha mostrato di gradire ampiamente e si è profuso alla fine in applausi e chiamate ripetute, che sono valsi due bis iberici: due delle Siete Canciones Populares Españolas di Manuel de Falla, popolarissimi pezzi a forte connotazione folclorica, nati per voce e pianoforte, ma soggetti a numerose elaborazioni, di cui quella con violoncello è una delle più note, proprio per la qualità cantabile dello strumento. Notevole in particolare la ninnananna intitolata Nana, cui il violoncello con sordino conferisce un’atmosfera intima e pensosa, soffusamente drammatica nella magistrale arcata di Sol Gabetta.

Foto © Angelo Nicoletti

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