Opera

I “Pagliacci” si fermano in periferia

Ambientazione di stampo vagamente neorealista per lo spettacolo di Franco Zeffirelli (costumi di Raimonda Gaetani), portato al debutto all'Opera di Roma nel 1993 e già presentato al Filarmonico anche nel 2012. Positivo debutto del giovane direttore Valerio Galli, che cerca qualche sfumatura interessante e compagnia di canto in cui spicca la Nedda di Donata D'Annunzio Lombardi

Cinque anni fa, nel gennaio 2012, alla fine della prima veronese del suo allestimento di Pagliacci l’ottantanovenne Franco Zeffirelli era comparso a sorpresa sul palcoscenico del teatro Filarmonico. E aveva raccolto una standing ovation. Lo spettacolo si avviava allora a compiere 20 anni, come ben ricorda Cecilia Gasdia, che ne fu iniziale protagonista nel 1993 all’Opera di Roma. Il Costanzi è evidentemente legato sotto diversi profili alla Fondazione Arena, almeno in questo infausto e problematico periodo. Domenica al Filarmonico, la ripresa dell’opera di Ruggero Leoncavallo ha avuto come spettatore (oltre ovviamente al sovrintendente Gabriele Polo, in carica da tre mesi) il commissario straordinario Carlo Fuortes, che come si sa è a sua volta sovrintendente del teatro d’opera della Capitale e di essa è considerato il “salvatore” dopo un’aspra crisi. Presenza non scontata e non abituale. Utile per ascoltare dalla viva voce di una delegata dei dipendenti areniani la lettura di un comunicato in cui lo si esorta a “riparare” ai danni attributi alla gestione precedente, non senza esprimere forte contrarietà per come è andata a finire la vertenza per il corpo di ballo (sciolto: partite le lettere di licenziamento) e preoccupazione per la lentezza con cui la “messa in sicurezza” dei conti sta procedendo. Diversa dalla rapidità con la quale i dipendenti hanno sostenuto la loro parte, la riduzione dello stipendio di quasi il 20 per cento in virtù della “serrata” di due mesi della Fondazione avvenuta in ottobre e novembre. Tecnicamente, un part-time verticale obbligatorio, novità assoluta nel panorama delle Fondazioni liriche italiane.

Questo spettacolo di Zeffirelli (costumi di Rimonda Gaetani) è un caso particolare: si tratta infatti di uno dei pochissimi in cui il regista fiorentino rinunci alla sua programmatica fedeltà a tempi e luoghi indicati nel libretto. La storiaccia a tinte forti di un adulterio che finisce nel sangue sulla pubblica piazza di un paese del Mezzogiorno d’Italia, resa ambigua dalla sua doppiezza, visto che vita vissuta e finzione teatrale si sovrappongono, viene infatti trasferita in un contesto urbano degradato, fra anni Sessanta e Settanta del Novecento. Pagliacci in una periferia, insomma: lo spazio dove la compagnia di girovaghi inscenerà il suo spettacolo è sovrastato da casermoni e zeppo di un’umanità multiforme e brulicante. Del resto, si sa: Zeffirelli coltiva l’affollamento scenico come un marchio caratteristico e si dedica da sempre a farne occasione di macchiettismo, colorato e dettagliato. In questo caso, il gusto dei particolari (raccolto e proseguito dal fido Stefano Trespidi, che ha curato la ripresa) consente anche qualche inopinata fedeltà al libretto. Vi si parla di un somarello? E Zeffirelli lo porta in scena vivo e vegeto, anche se molto poco delle didascalie per il resto è rispettato…

Si potrebbe osservare che il verismo di Leoncavallo, sottolineato da un linguaggio inaudito allora all’opera e anche dopo molto raramente rintracciabile (Nedda è chiamata sgualdrina e “meretrice abbietta”), finisce in una vivace cartolina nella quale lo “squarcio di vita” diventa rappresentazione di maniera, ma è innegabile che lo spettacolo funzioni. I tempi sono infallibili, la fluidità del racconto supera la macchinosità delle scene di massa e si gioverebbe di una rappresentazione senza intervallo (come invece avviene). In particolare, il secondo atto, nel quale si coagula la tragedia, è giocato con un’essenzialità che privilegia la messa a fuoco sui personaggi rispetto alla cornice, pur necessaria.

Musicalmente, lo spettacolo si è valso della direzione del giovane Valerio Galli, debuttante al Filarmonico, che ha delineato una lettura non banale, attenta alle sottigliezze di stile francese che Leoncavallo mostra di tenere in considerazione. Ne escono dei Pagliacci non semplicemente spinti sul versante dell’esasperazione verista, capaci anche di toccare dinamiche moderate, di tratteggiare eleganze timbriche non sempre così evidenti. Fra i protagonisti vocali, su questa linea si colloca la Nedda di Donata D’Annunzio Lombardi, che non ha colore vocale particolarmente bello, ma lo gioca con qualche eleganza, civettuola e sensuale quando serve, oltre la tensione drammatica che non le fa comunque perdere il controllo dell’emissione. Walter Fraccaro dà vita, invece, a un Canio secondo tradizione, nella linea di canto sfogata e turgida che molto va a detrimento della pronuncia e tuttavia raggiunge lo scopo nella tensione espressiva e nella tenuta sull’acuto. Fraseggio ben articolato ha dimostrato di avere Devid Cecconi, un Taddeo di grande impatto scenico che spinge il pedale dell’abiezione senza perdere il controllo dell’emissione, mentre brillante Arlecchino, svettante e nitido, è risultato il tenore Francesco Pittari. Misurato il Silvio di Federico Longhi.

Impegnato e preciso il coro istruito da Vito Lombardi. Alla memoria di uno dei suoi componenti, prematuramente scomparso, è stata dedicata la prima rappresentazione. Divertiti e abili a muoversi in scena i bambini del coro di voci bianche A.LI.VE. di Paolo Facincani.

Pubblico numeroso, applausi molto convinti, ma questa volta Franco Zeffirelli non si è fatto vedere. A quasi 94 anni, ne ha tutto il diritto.

Foto © Ennevifoto

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