Opera

Puccini, l’amore vero perde sempre

Inaugurazione di stagione un po' dimessa al Filarmonico di Verona, con molti vuoti in platea nonostante l'annunciato tutto esaurito. La "Turandot" del Teatro di Slovenia si fa apprezzare per la regia pulita di Filippo Tonon e la direzione energica di Jader Bignamini, meno per i protagonisti vocali Walter Fraccaro (Calaf) e Tiziana Caruso (nel ruolo del titolo)

Inaugurazione di stagione con il senso della crisi. Sul palcoscenico del Filarmonico, prima che si alzi il sipario sulla Turandot di Puccini, sfila la protesta dei dipendenti delle Fondazioni liriche italiane. Tredici persone silenziose, ciascuna regge un cartello con il nome delle città sedi di teatri d’opera. Da Napoli a Roma, da Milano a Firenze, da Palermo a Venezia e così via. Compresa naturalmente, Verona. Viene letta una breve nota unitaria delle organizzazioni sindacali: vi si sottolinea come i dipendenti areniani abbiano già pagato abbondantemente il costo del dissesto, senza che ne siano ancora emerse le responsabilità gestionali; si esprime preoccupazione per la legge delega di riforma che avanza minacciosamente. Si chiede il sostegno del pubblico e la risposta è chiara: un applauso lunghissimo. La sala, però, non offre il colpo d’occhio del tutto esaurito sbandierato con soddisfazione pochi giorni fa dal neo sovrintendente Gabriele Polo. Intere file di platea sono desolatamente vuote, così come molti palchi, ciò che più teme chi si occupa di teatro in tutto il mondo. Pare che i numerosi biglietti acquistati dagli sponsor Volotea e Banco Popolare abbiano portato beneficio al botteghino ma non alle presenze: il meccanismo andrà rivisto. Resta la sensazione di un’inaugurazione dimessa. Per il glamour non bastano due carabinieri in alta uniforme all’ingresso.

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La protesta delle Fondazioni liriche prima delle “Turandot”

Musicalmente parlando, la serata è risultata tuttavia interessante, anche se ha offerto spunti differenti e in qualche caso divergenti. Lo spettacolo è una produzione dell’Opera di Slovenia, firmato per regia e scene da Filippo Tonon, per i costumi da Cristina Aceti. Allestimento essenziale, ma non banale. I segni scenici sono misurati ma non privi di efficacia, grazie al gioco di tre strutture quadrangolari di dimensioni crescenti, aperte sul davanti, che scorrono da una quinta all’altra – su tre diversi livelli – sospinte dai figuranti. Al loro interno, talvolta anche al di sopra, suggestioni decorative cinesi (improntate alle sfumature dell’argento) e spazi drammaturgici concentrati, che focalizzano l’attenzione sui momenti forti dell’opera. Forse un po’ troppo compressa nelle scene di massa, la narrazione è fluida e rende in maniera appropriata il carattere esotico della vicenda tanto quanto la cifra favolistica, fantasiosa eppure crudelmente concreta, dell’opera postuma di Puccini. Il quale, affacciandosi per l’ultima volta sulla complessità dell’amore, finisce per confrontarsi tragicamente con il Nulla. Un desolante senso di impotenza e di inutilità serpeggia infatti insistente lungo tutta l’opera, non certo sconfitto dall’effimero e posticcio lieto fine. Ad esso, com’è noto, Puccini non riuscì a metter mano, perché morì prima di poterlo fare.

Sul podio c’era Jader Bignamini, giovane direttore di belle promesse, che ha scelto la strada di una resa sonora di grande impatto, con pieni orchestrali potenti e ben articolati timbricamente, a tratti soverchianti i cantanti sulla scena. Notevole comunque anche la gamma delle sfumature, in un’interpretazione che è parsa alla fine ben equilibrata fra le esigenze esteriori del dramma sanguinario e quelle interiori dell’impossibilità di resistere alla passione, sempre delineate fuori di retorica, non di rado anche con eleganza.

La compagnia di canto non ha visto brillare particolarmente i due protagonisti principali. Il Calaf del tenore Walter Fraccaro è risultato vocalmente teso e spesso forzato nell’emissione e nella pronuncia, palesando qualche appannamento nella zona alta della tessitura; considerazioni analoghe per Tiziana Caruso, una Turandot che non è parsa molto a suo agio di fronte alla necessità di “spingere” sull’acuto mantenendo colore tagliente e linea vocale drammatica. Quanto a Liù – vera protagonista emotiva dell’opera – Rocio Ignacio l’ha disegnata con sottolineature maggiori per il risvolto drammatico rispetto a quello lirico e senza particolari seduzioni timbriche, ma alla fine convincendo per adesione e intensità. Positivi i comprimari, dai tre dignitari di Federico Longhi, Massimiliano Chiarolla e Luca Casalin, che hanno ben giocato il rapporto fra dialogo a tre e intarsi solistici, con notevoli sottigliezze espressive, al patetico Timur di Carlo Cigni, reso con dolente efficacia di mezzi vocali. Bene anche il Mandarino di Nicolò Ceriani e l’imperatore di Murat Can Güvem, molto bene il coro dell’Arena, compatto e partecipe. Alla prima quasi dieci minuti di applausi e chiamate.

Foto © Ennevifoto

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