Opera

Giovani in crisi, un melodramma

Presentata al Comunale di Treviso (che l'ha commissionata) la nuova opera di Luca Mosca su libretto di Pilar García. Organico strumentale ridotto e particolare, senza archi né ottoni, ma di grande efficacia timbrica. Testo ridondante per una storia a lieto fine, lontana dalla comicità dichiarata dagli autori

Il teatro musicale contemporaneo sta vivendo in Veneto un autunno di particolare vivacità. Si sono da poco concluse le rappresentazioni di Aquagranda, opera di Filippo Perocco composta su commissione della Fenice per l’inaugurazione della stagione (nel cinquantenario dell’alluvione del 1966 a Venezia), ed ecco venire al debutto a Treviso un’altra opera nuova, appositamente commissionata dal Teatro Comunale per la sua stagione lirica. Si tratta di Aura di Luca Mosca su libretto di Pilar García, realizzata in stretta collaborazione con il conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, al cui meritorio progetto “Opera Studio” fanno riferimento tutti gli interpreti, strumentali e vocali.

Il soggetto è intrigante nel suo mettere insieme dinamiche psicologiche e sentimentali antiche come l’uomo (e non a caso ampiamente presenti nella storia del teatro e dell’opera) e un contesto giovanile contemporaneo, fatto di incertezza sul futuro, di patologica dipendenza rispetto agli strumenti digitali, di comportamenti border-line nel contesto dello spaccio e del consumo degli stupefacenti, in questo caso chimici.

È in questo quadro problematico, all’interno del gruppo di ragazzi e ragazze che affollano la scena, che emerge la vicenda di Aura. Quando scopre che il ragazzo di cui è innamorata è finito nel mirino di uno spacciatore, al quale deve una forte somma, non esita a decidere di sacrificarsi per lui. Si offrirà dunque al malavitoso, che da tempo ha messo gli occhi su di lei, in cambio della vita dell’amato, escogitando però un trucco drammatico per evitare di soggiacere davvero alle sue brame. Utilizzerà infatti un preparato che la farà credere morta, inducendo alla fuga il criminale e i suoi scagnozzi. Mentre già gli amici e l’amato piangono la morte di Aura, essa torna alla vita, giusto in tempo per capire che in realtà il suo grande amore era solo un “fantasma” della sua mente. Si propone quindi di sperimentare una reale libertà, perché “vivere è voler vivere / e amare, voler amare”.

È singolare che una vicenda del genere sia definita dagli autori “opera comica”. Tecnicamente siamo nel genere semiserio, o di mezzo carattere, che ebbe particolare fortuna a fine Settecento e nella prima metà dell’Ottocento: storie che buffe non sono affatto e anzi a un certo punto virano sul tragico o quasi, prima che un colpo di scena raddrizzi le cose e conduca al lieto fine. Come La gazza ladra di Rossini, per fare un solo esempio. Ma naturalmente, la questione non è certo di genere. Il punto è che di comico nel libretto c’è poco o nulla. E difficilmente avrebbe potuto esserci, dato il plot. C’è una certa propensione per il grottesco, semmai, sottolineata dalla verbosità un po’ vuota del testo ma non dalla drammaturgia, che segue una sua linea narrativa piuttosto lineare, soltanto sfiorata dallo spettacolo di Treviso, firmato per la regia da Alvise Zambon e per il progetto drammaturgico da Francesco Bellotto. Ci sfugge in che cosa consista l’articolazione di questi due ruoli, ma forse la spiegazione sta nell’origine per molti aspetti didattica della produzione. Questa è del resto anche l’impronta complessiva dell’allestimento, niente più che volenteroso e impegnato, appesantito da un certo programmatico schematismo nel delineare la molteplicità dei personaggi.

I giovani e giovanissimi cantanti hanno tutti discreta qualità vocale, molto più approssimativa presenza scenica e patiscono in particolare la necessità della recitazione che la partitura di Mosca affida loro con una certa frequenza, oltre l’arioso o il declamato di vario effetto. Da citare, fra tutti, Fernanda Girardini, Aura di interessante duttilità espressiva e bel colore; Dario Giorgelè, il malavitoso Kapu, sprezzante e caricaturale; Claudia Graziadei, brillante e spontanea. Il resto del cast internazionale, comunque da lodare per la diligenza, era composto da Francesco Basso, Erika Tanaka, Kalliopi Petrou, Mirijana Pantelic, Safà Korkmaz, Elena De Simone, Andrea Biscontin, Federica Corrò, Valentina Corò, Asako Watanabe, Serena Bozzo e Ludovica Marcuzzi.

Resta da dire della partitura di Luca Mosca, un autore che ha già offerto molte e significative prove nel campo del teatro musicale. Qui il tratto più caratteristico della sua scrittura risiede in una scelta strumentale molto particolare, che rinuncia programmaticamente agli apporti tradizionali degli archi e degli ottoni per costruire un accompagnamento basato su alcuni timbri-cardine (il vibrafono, le chitarre elettriche, l’arpa, il pianoforte) ai quali si uniscono pochi fiati e due tastiere elettroniche. Realizzata con efficacia e precisione dall’orchestra del conservatorio veneziano, diretta da Giovanni Mancuso, la scrittura è virtuosistica per varietà e ricchezza, con sofisticata attenzione per un gioco di pieni e vuoti nei colori che diventa elemento drammaturgico tanto quanto la vivacità ritmica, la mutevolezza dei tempi, la scrittura vocale che offre contrasti anche abbaglianti nelle tessiture. E regala alcuni scampoli di fascinosa polifonia nelle scene d’insieme, dove si realizzano intrecci particolarmente complessi, qualche volta con accompagnamento ridotto ai minimi, se non in vera e propria versione “a cappella”.

È musica di valenza comunicativa immediata e mai banale, quella di Mosca, che tocca molteplici climi espressivi e va ben oltre la comicità tradizionale, riservandole anzi solo pochi guizzi. Musica drammatica, piuttosto in senso lato: ideale per una storia a lieto fine, distesa sopra un vuoto che inquieta piuttosto che far sorridere.

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