Opera

Un capolavoro francese di Donizetti

Alla Fenice "La Favorite" nella versione originale: preziosa direzione di Donato Renzetti, compagnia di gran classe con John Osborn, Veronica Simeoni e Vito Priante. Lo spettacolo di Rosetta Cucchi è spesso avvolto nella plastica e nella sua astrazione futuribile perde di vista il senso strutturale del Grand-Opéra

In Castiglia, alla metà del XIV secolo, un giovane novizio in procinto di prendere i voti abbandona il convento. Si è innamorato di una misteriosa dama vista in chiesa, ed è deciso a seguirla. La signora ricambia il sentimento ma non svela il suo segreto: è l’amante del re Alfonso XI, che la fa vivere nel lusso però segregata su un’isoletta. L’ex novizio decide allora di andare alla guerra contro i mori. Sarà lui l’eroe della loro cacciata dalla penisola iberica e il re, che intanto è in rotta con il papa perché manifesta l’intenzione di cacciare la moglie e sposare la favorita, lo colma di onori, titoli e ricchezze. Lui però dice che il suo unico desiderio è sposare una nobile dama di cui è innamorato. Alfonso XI, al quale era stata riportata l’infedeltà della sua favorita, scopre che proprio di essa si tratta. Escogita così una terribile vendetta: acconsente alle nozze con l’intento di infamare il vincitore dei mori, ignaro di diventare il marito dell’amante del re. A poco serve che lei cerchi di informare il promesso sposo della realtà prima del matrimonio. L’ancella incaricata di portare il messaggio viene bloccata e la tragedia precipita. Scoperto nel peggiore dei modi il segreto, ferito nell’onore e tradito nella fiducia, il vincitore dei mori torna a vestire il saio. Farà in tempo a incontrare nuovamente l’amata, venuta a morire al suo convento, e a scoprire che ne è sempre disperatamente innamorato. Un destino di morte attende anche lui.

La vicenda della Favorite di Gaetano Donizetti, che oggi sembra il soggetto di una telenovela, ha tutte le caratteristiche del genere musicale (e culturale) del cosiddetto “Grand-Opéra”, cui a pieno titolo appartiene (debuttò a Parigi nel 1840). Cornice storica, incrocio fatale fra sentimento privato e ragione di stato, non senza conflitti politici e religiosi, alto tasso melodrammatico, naturalmente, con decisa propensione al tragico. Il tutto acconciato in una vesta drammaturgica grandiosa: vaste scene d’insieme, un balletto inserito in partitura, notevole importanza per il coro, orchestra di estese dimensioni.

Basata su di un formidabile scontro di psicologie, quest’opera non mostra falle, da qualsiasi parte la si consideri. E poco serve sostenere per sminuirla, come si fa, che si tratti di un centone. Lo è in effetti (specialmente da L’ange de Nisida, ma anche da altri vari lavori), ma è straordinaria la coerenza e la forza della rielaborazione.  Superbo il declamato con cui viene rimodellata la tradizione italiana del recitativo, e stupendamente intarsiato strumentalmente; mai fini a se stessi gli exploit vocali dei personaggi principali, che vedono la forma chiusa delle Arie confluire in quella ben più coinvolgente delle Scene. E basti come esempio il monumentale duo conclusivo, un confronto sentimentale-esistenziale di profondità tale da poter reggere il confronto con i grandi risultati che di lì a un decennio (e poi oltre) raggiungerà Verdi.

Mai rappresentata prima alla Fenice nella versione originale in francese (quella in italiano è apparsa comunque raramente, l’ultima quasi 30 anni fa), La Favorite è ora in scena nel teatro veneziano in una edizione che unisce alla notevole qualità musicale le angustie un po’ cervellotiche di uno spettacolo (regia Rosetta Cucchi, scene Massimo Cecchetto, costumi Claudia Pernigotti) che risulta di un futuribile astratto nelle immagini (grandi elementi plastici, trasparenti eppure opprimenti, nel secondo e terzo atto; una parete di oggetti che sembrano gli armadietti di un deposito bagagli nel primo e nel quarto), molto particolare nel taglio interpretativo. L’essenzialità scenica in qualche modo tiene nel terzo atto, altrove è macchinosa e pretestuosa. E comunque contraddice l’assunto drammaturgico del “grandioso”, che è connaturato alla drammaturgia ed è decorazione e struttura allo stesso tempo. Le danze del secondo atto si riducono a una pantomima con due fanciulle che finiscono morte stecchite, il taglio ideologico sulla condizione subalterna della donna, pur plausibile, rimane insistita stilizzazione per immagini (ancelle sempre velate, sempre separate dagli uomini).

Se lo spettacolo lascia freddi, riscalda il cuore e la mente la raffinata, rigorosa e rigogliosa direzione di Donato Renzetti, che illumina i tesori strumentali della partitura e scava nello stile donizettiano esaltandone la condensata potenza drammatica. All’altezza la compagnia di canto. Il tenore americano John Osborn, il novizio Fernand, domina benissimo la tessitura molto acuta scritta da Donizetti per il primo interprete dell’opera, Gilbert Duprez, e trova l’equilibro fra lirismo e drammaticità con grande proprietà di fraseggio. La sua pronuncia francese non è sempre impeccabile, ma la sua prova è di assoluto livello. Tale va considerata anche quella di Veronica Simeoni, una Léonor (la favorita) dalla seducente tinta mezzosopranile, dalla linea di canto ricca ed espressiva, benissimo controllata nella zona acuta. Apprezzabile anche il tormentato Alfonso XI di Vito Priante, baritono dall’elegante propensione cantabile. A posto gli altri, con il basso profondo Simon Lim e lo svettante tenore Ivan Ayon Rivas in evidenza e a postissimo il coro istruito da Claudio Marino Moretti.

Condividi questo articolo:
Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email