Cronache

«Il teatro lirico? Pubblico e stabile»

Cristiano Chiarot, sovrintendente della Fenice e presidente dell'Associazione delle Fondazioni lirico-sinfoniche italiane, fa il punto su un settore oppresso dai debiti e alla vigilia di radicali trasformazioni "La stabilità è condizione della qualità ed è un falso problema: il vero nodo è la produttività, che deve aumentare". "Il festival in Arena è salvo, Fuortes farà tutto il possibile per evitare la liquidazione"
Chiarot
Cristiano Chiarot

Dall’ingresso del personale, è entrato per la prima volta alla Fenice nel lontano 1981. Aveva 29 anni, una sicura passione per l’opera, alle spalle un’esperienza giornalistica nell’effimero quotidiano veneziano Il Diario; in tasca un contratto a termine di due mesi come collaboratore per l’ufficio stampa. Da allora, in pratica, non se n’è più andato. Chi scrive ricorda solo un breve interludio, trascorso senza particolare entusiasmo alla redazione veneziana dell’ANSA. È durato poco: per il resto, la vita professionale di Cristiano Chiarot coincide con gli ultimi 35 anni di storia del “Gran Teatro” veneziano. Ben presto responsabile dell’ufficio stampa, negli anni in cui il sovrintendente era Lamberto Trezzini e il direttore artistico Italo Gomez: un’epoca di straordinarie scelte artistiche; quindi, al passo con i tempi, direttore del marketing e della comunicazione. Un’esperienza in crescendo, non limitata al settore informativo e comunicativo, ma di carattere culturale e teatrale a tutto tondo. Una conoscenza della macchina-Fenice che probabilmente non ha eguali. Nel dicembre del 2010 è stato nominato sovrintendente, confermato di recente. È anche il presidente dell’Anfols, l’associazione che riunisce le Fondazioni lirico-sinfoniche italiane (tutte tranne quelle “speciali”, la Scala e Santa Cecilia): un ruolo delicato, che lo porta a stretto contatto con il ministro della cultura, Franceschini. Lo incontriamo nel suo ufficio alla Fenice, dove trascorre quotidianamente dalle 12 alle 14 ore, in una giornata particolarmente febbrile: il presidente della repubblica Mattarella atteso in teatro il giorno dopo, una nuova produzione che si avvia al debutto la settimana prossima, progetti di alto profilo che si stanno mettendo a fuoco per la prossima stagione, fra cui le tre opere di Claudio Monteverdi affidate al celebre direttore inglese John Eliot Gardiner (L’Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria, L’incoronazione di Poppea).

Visto da qui, sovrintendente, il teatro lirico sembra avere buone prospettive. Ma se si guardano i conti, il panorama cambia e sembra che al peggio non ci sia fine. All’ultimo rilevamento, a fine 2015, il debito complessivo delle Fondazioni aveva sfondato il tetto dei 400 milioni, in aumento. I pessimisti vedono vicino l’anno zero. È così?

«No, non è così. In questo settore gli alti e bassi sono tipici e infatti in passato già ci sono stati interventi legislativi per mettere un freno o ripianare i deficit. Ma il percorso iniziato con la legge Bray va nella direzione giusta e la situazione presenta anche risvolti positivi. La produzione è in crescita. E le sovvenzioni alla lirica rimangono nel bilancio consolidato dello Stato».

Appare chiaro, però, che una riforma organica dell’intero sistema è ormai urgente. Renzi ha affidato al ministro Franceschini la delega. Ci si avvicina a cambiamenti radicali?

«È sempre più evidente che la legge Veltroni, che ha istituito le Fondazioni nel 1996, ha determinato una contraddizione sulla natura giuridica delle Fondazioni, che sono di diritto privato ma rientrano nel pubblico non solo perché sono finanziate in larga parte dallo Stato, ma perché debbono comunque obbedire a una serie di prescrizioni molto precise. Occorre ricostruire il sistema avendo come obiettivo la razionalizzazione, l’ottimizzazione e l’efficienza».

Secondo una certa visione, soltanto la privatizzazione potrebbe garantire l’uscita dell’opera dalle sabbie mobili della crisi. Lo sostiene su tutti il sindaco di Verona, Flavio Tosi, che definisce “carrozzoni” le Fondazioni…

«Il finanziamento pubblico è comunque imprescindibile. E bisognerà costruire un sistema che preveda questa realtà. Del resto, Franceschini ha chiarito proprio in questi giorni che lo Stato non intende smarcarsi dalla sua funzione di sostegno a questa realtà culturale, che è e resta primaria. Non ci si può illudere che l’apporto dei finanziamenti privati sia sufficiente».

Quanto serve l’Art Bonus, la legge che offre agevolazioni fiscali significative sulle sovvenzioni private per la cultura?  

«L’Art Bonus è importante, ma bisogna fare di più per arrivare, come altrove nel mondo – a una defiscalizzazione sostanziale e articolata non in prospettiva triennale, ma annuale».

Torniamo all’opera: non è raro sentir dire che questo genere di spettacolo ha fatto il suo tempo, che l’interesse del pubblico delle nuove generazioni è rivolto da tutt’altra parte. Lei cosa risponde?

«Chi dice che l’opera non interessa, dice il falso. I dati Siae dimostrano che il pubblico è in aumento. Dunque la crescita delle alzate di sipario è funzionale e risponde a una domanda, latente o evidente, che non si può minimizzare. L’opera è il prodotto culturale italiano più apprezzato in tutto il mondo, come dimostrano i dati delle rappresentazione nei teatri internazionali. Sarebbe assurdo che proprio il Paese che ha visto nascere il melodramma e nel quale si è sviluppata una tradizione imponente e gloriosa, lunga quattro secoli, la abbandonasse».

Il fatto è che per tenere viva questa tradizione occorrono un sacco di soldi e i debiti aumentano, mentre lo Stato sembra avere il braccino corto, visto che l’ammontare del Fus per la lirica si è prosciugato del 30 per cento.

«L’indebitamento non deriva solo dalla mancanza di fondi. È inutile negare che in passato sono stati fatti, in vari teatri d’opera, gravi errori gestionali. L’obiettivo dev’essere sempre quello di mantenere i conti in equilibrio, in pareggio. Il cuore del lavoro consiste nel modellare la progettazione artistico-culturale con le risorse esistenti, cercando di farle fruttare al meglio. In ogni caso, la legge Bray, dov’è stata correttamente applicata, sta funzionando proprio nella sua funzione principale, che è la ristrutturazione e l’abbattimento dell’indebitamento».

Chi vorrebbe una privatizzazione radicale dell’opera finisce per abbracciare una visione, per così dire, impresariale dell’attività, immaginando masse artistiche convocate “ a chiamata” per periodi definiti. Anche senza arrivare a questi estremi, non è infrequente che si consideri la “stabilità” dei dipendenti artistici e tecnici delle Fondazioni come un elemento sempre meno compatibile con l’equilibrio dei conti. Lei che ne pensa?

«La stabilità è un falso problema. Il vero nodo è quello della produttività: un teatro d’opera deve funzionare sempre a pieno regime. Qui in Fenice, da adesso all’estate il sipario si alzerà ogni sera, e questo è importantissimo. Ma per una produttività a pieno regime, non si può prescindere da masse stabili. E la qualità è funzione della stabilità della struttura portante, artistica e tecnica, di un teatro. Perché crede che nell’Ottocento Verdi abbia fatto della Fenice il teatro dove ha realizzato più debutti assoluti delle sue opere, cinque? Perché, in un’epoca in cui il concetto di stabilità non era stato ancora acquisito, qui trovava la qualità e l’affidabilità che derivavano da una gestione che privilegiava forme sia pure embrionali di stabilità, di continuità artistica nell’orchestra, nel coro, nella realizzazione degli spettacoli ».

Il Veneto è l’unica regione con due Fondazioni liriche e non si potrebbero immaginare situazioni più diverse: la Fenice è oggi portata come esempio di “gestione virtuosa”, l’Arena rischia seriamente la chiusura. Lei che idea si è fatto di quel che accade a Verona?

«Mi ha sorpreso che i dipendenti non abbiano approvato un piano accoglibile, come quello portato al loro voto. E d’altro canto è probabile che ci potesse essere una maggiore efficienza organizzativa e progettuale».

Ma ha senso che ci siano due Fondazioni a 120 chilometri di distanza, che fra l’altro bussano a soldi alla stessa amministrazione regionale?

«Perché no? L’importante è avere chiaro il modello culturale che si vuole perseguire»

Che prospettive vede, per la Fondazione Arena?

«Il commissario Fuortes, che è bravo e sa cosa vuol dire raddrizzare una Fondazione, visto che lo ha fatto molto bene a Roma, non è stato mandato per chiudere. Intanto il festival di quest’estate è salvo. Per la messa in sicurezza dei conti c’è ancora un po’ di tempo e aderire alla Bray sarà fondamentale. La liquidazione è senza ritorno, prima di arrivarci bisognerà provarle tutte».

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