Opera

Rigoletto per non pensare alla crisi

Mentre imperversa la bufera in Fondazione, al Filarmonico di Verona Mihaela Marcu e Alessandro Scotto di Luzio sono una Gilda e un Duca di bella presenza scenica e sicura efficacia vocale. Interessante ma acerbo il buffone disegnato da Leo An. Sul podio Fabrizio Maria Carminati. La regia di Arnaud Bernard, inserita in una scenografia monumentale e cupa, è attenta agli snodi drammatici dell'opera

Il teatro Filarmonico di Verona era al gran completo, domenica pomeriggio, per il terzo spettacolo operistico della “stagione orribile” 2015-2016. L’annata è orrenda per la precarietà della Fondazione Arena – sempre più sull’orlo del crack – e per la tensione dell’aspra vertenza sindacale che ne è conseguita (sono decine i posti di lavoro a rischio), ma non per gli effetti di questa situazione sul calendario, che ha conosciuto forti sussulti solo prima di Natale ma ora si sta svolgendo regolarmente. E il tutto esaurito è un bel segnale: checché se ne dica, il melodramma ha ancora un pubblico che risponde presente, se il cartellone è congegnato nella maniera giusta. In questo caso, la proposta era di quelle a colpo sicuro, perché Rigoletto è uno dei titoli verdiani più amati (è secondo solo alla Traviata), spesso nella “top ten” delle rappresentazioni operistiche in tutto il mondo. Certo, affrontare un capolavoro del genere è sempre complesso. Lo è per le sue difficoltà intrinseche, musicali e drammatiche, ma anche perché la sua notorietà comporta il rischio della peggior routine, quella che finisce per snaturare fino quasi alla parodia un melodramma che non per caso da oltre 160 anni fa parte del “canone” della cultura popolare in Italia.

Allo spettacolo che in questi giorni si rappresenta al Filarmonico va riconosciuta un’intenzione niente affatto banalizzante o generica. La compagnia di canto è congegnata con attenzione e ha più di qualche buona freccia al suo arco. La direzione musicale è consapevole, anche se non del tutto rifinita al meglio. L’allestimento è la ripresa di quello già visto al Filarmonico cinque anni fa e non si segnala per “bizzarre invenzioni” (da qualche decennio sempre più frequenti a proposito di Rigoletto) se non all’inizio, quando mostra un Duca in stile Frankenstein che fa esperimenti su una Creatura con la gobba, come il suo buffone di corte. Nel seguito il tutto rimane, fortunatamente, lettera morta.

La regia firmata da Arnaud Bernard (scene di Alessandro Camera) dipana con una certa efficacia lo stringente meccanismo drammatico congegnato da Verdi e dal librettista Francesco Maria Piave, ma costringe tutta la vicenda in un interno allo stesso tempo monumentale e claustrofobico, che nulla concede alla spettacolarità esteriore ma finisce per risultare un po’ opprimente. La parte superiore della scena è costituita da un’immensa e polverosa biblioteca, che si perde in alto nell’oscurità. Un ballatoio a mezz’altezza la percorre tutta e permette, con due scalette mobili, di scendere al piano di scena, tutto foderato di legno, dove si svolge per lo più lo spettacolo. Al terzo atto, la casa di Sparafucile (dove s’incrociano i destini di Gilda, di suo padre Rigoletto e del Duca) è una barca ormeggiata lungo il Mincio. Ma quando il sicario passa a fil di spada la povera fanciulla, dall’alto (cioè dalla biblioteca) scende una nevicata di fogli di carta. E chissà perché.

Dal podio, Fabrizio Maria Carminati sembra voler smussare le “esplosioni” drammatiche dello stile verdiano di mezzo, anche se non rinuncia a tempi vorticosi, quando servono. Il meglio della sua interpretazione si ha sul versante lirico e in generale nell’accuratezza del fraseggio e dei colori, ma in varie occasioni si apprezzerebbe una tensione espressiva più concentrata e trascinante.

Nella compagnia di canto svettano la Gilda di Mihaela Marcu e il Duca di Alessandro Scotto di Luzio. Lei ha notevole presenza scenica di bella fanciulla innamorata dell’amore e la sua linea di canto corrisponde al personaggio: eleganza trasognata, agilità, colore vocale seducente, tenuta in sovracuto, accentuazioni drammatiche misurate ma efficaci. Lui disegna un Duca sensuale e contraddittorio, che solo fuggevolmente si interroga sull’amore, ma finisce per dedicarsi esclusivamente all’erotismo. Il timbro è franco, lo squillo pronto, ben controllato, preciso, il fraseggio meditato e accurato. Rigoletto è il coreano Leo An: voce un po’ chiara per la parte, ma linea di canto ben impostata. Nelle vesti di padre amoroso fa valere alcune buone sfumature, in quelle di buffone sprezzante sfiora soltanto l’acre sarcasmo necessario, come terribile vendicatore rimane spesso un passo in qua rispetto alla terribilità di accenti che Verdi gli affida. Fra gli altri, da segnalare lo Sparafucile di Gianluca Breda, che tiene nella tessitura di basso profondo, la Maddalena equilibrata di Clarissa Leonardi, il risentito Monterone di Alessio Verna. Il coro istruito da Vito Lombardi si muove e canta con discreta omogeneità.

 

 

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