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Opera

Una “telenovela” dell’Ottocento

Nel momento più aspro della crisi della Fondazione Arena di Verona, inaugurazione di stagione al Filarmonico con "La forza del destino". Fuoco melodrammatico di intensità diseguale, per blocchi: la regia risolve il problema con interessanti soluzioni sceniche tra immagini e video. Compagnia di canto diseguale, bene la Leonora di Hui He, il Don carlo di Dalibor Jenis e il Melitone di Gezin Myshketa

Uno dei personaggi principali, Don Alvaro, è un “Indo maledetto” (per i suoi nemici, ovvio), uno che ha “sangue mulatto” ed è “da troppo abietta origine uscito”. È un latino-americano, di discendenza oscura per l’altezzosa famiglia nobiliare spagnola della cui figlia si è innamorato. Così, è anche più forte la tentazione di considerare La forza del destino una sorta di precedente delle telenovele. Stessa melodrammaticità esagerata ed elementare, intrisa di colpi di scena spesso paradossali se non addirittura grotteschi o caricaturali; analogo intrico di rapporti familiari e sentimentali a tinte forti; uguale dispersione del racconto in tanti rivoli forzosamente ricondotti al plot principale, in tante “location” diverse. Manca, è vero, la serialità, cioè il quasi interminabile procedere della storia attraverso i suoi innumerevoli personaggi, ed è questo l’elemento nuovo introdotto dalla logica televisiva. Ma già all’epoca, quest’opera di Verdi era considerata troppo lunga. E la lunghezza (lungaggine?) in fin dei conti è la conseguenza di una tendenza (quella della frammentazione drammatica) che un secolo più tardi, o poco più, le telenovele avrebbero portato al culmine.

Fuori di paradosso, La forza del destino (1869 la versione definitiva) rimane un caso molto peculiare nella vicenda creativa di Verdi. A noi posteri, che abbiamo la prospettiva d’insieme, appare chiaro il suo carattere di “laboratorio” musicale e anche drammatico. Destinato a prendere forma di grande teatro musicale di lì a breve, prima in Don Carlos e soprattutto, poco dopo, in Aida. Senza dire che gli inserti brillanti e popolareschi sono quanto di più vicino a Falstaff si trovi nel lavoro verdiano. Ma è difficile negare che l’unità drammaturgica sia più ideale che teatrale, in una vicenda che si sposta dalla Spagna all’Italia e ritorno, a cavallo degli anni, con ricorrenze forzate di personaggi laterali come tentativo di giustificare l’erraticità anche psicologica di quelli principali. In realtà, quello che conta qui sono le grandi scene sparse lungo i quattro atti, con la sola eccezione del terzo. Al quale del resto la grande scena viene sottratta dalla consuetudine esecutiva, che quasi sempre taglia il cosiddetto “duettone” fra Alvaro e il fratello della fanciulla il cui padre lo sfortunatissimo “Indo” ha ucciso del tutto involontariamente all’inizio.

Questa conformazione a blocchi più o meno autonomi (li unisce il filo rosso indicato dal titolo, a sua volta parafrasi di concetti ben più terragni come la vendetta, l’odio, l’onore…) costituisce il maggiore ostacolo dal punto di vista rappresentativo. Il che spiega come quest’opera, iscritta d’ufficio al repertorio, ne sia in realtà ai margini. Almeno al Filarmonico di Verona, dove mancava addirittura da 90 anni (l’ultima in Arena risale all’anno 2000) e dove la sera di Santa Lucia ha inaugurato la stagione operistica più problematica da molti anni a questa parte. Nel contesto di una crisi economica ormai fuori controllo (35 milioni il debito), il muro contro muro fra dipendenti (in agitazione contro il minacciato taglio dell’integrativo) e Fondazione Arena non si è riflesso nella regolarità della programmazione. E questo è un bel segno di maturità.

Lo spettacolo proviene da Maribor, in Slovenia, ed è firmato da Pier Francesco Maestrini, lo stesso regista del bel Barbiere di Siviglia in cartoon visto sempre a Verona nello scorso aprile. Qui come nell’altro allestimento è decisivo l’apparato scenografico, che Juan Guillermo Nova costruisce con ampio uso di supporti multimediali, fotografie e videoproiezioni che di fatto diventano elemento strutturale della rappresentazione. Il risultato è una notevole duttilità nel racconto per immagini, in qualche caso anche suggestive (secondo atto alla fine, terzo atto con una efficace scena di battaglia), che Maestrini si fa bastare, rinunciando quasi sempre ad approfondire oltre le stereotipo melodrammatico lo stare in scena dei personaggi. L’effetto è quello di uno spettacolo allo stesso tempo non privo di attrattive visive ma semplificato. E anche questa, in fin dei conti, può essere considerata una linea interpretativa, rispetto alla complessità non poco farraginosa della trama in quest’opera.

Essenziale e a suo modo suggestivo, per quanto statico, l’allestimento è fra l’altro ideale per portare in primo piano la partitura di Verdi, incastonata di vari gioielli e di molta routine, a volte sapiente a volte meno. Dal podio il giovane Omar Meir Wellber, al debutto nel titolo, distribuisce energia con generosità. La sua linea è quella della doppia sottolineatura della drammaticità fremente, ottenuta con tempi tesi e qualche approssimazione di fraseggio; meno interesse dimostra questo direttore per il lirismo sentimentale e soprattutto per il profondo sentimento religioso, centrale in quest’opera, ma risolto in generica elegia, senza l’adeguato risalto per la ricchezza delle soluzioni timbriche e melodiche.

Compagnia di canto non particolarmente equilibrata. Svetta comunque la Leonora di Hui He, sperimentata interprete verdiana anche in Arena, che al netto di qualche affaticamento nel peraltro cruciale quarto atto, si dimostra capace di una linea di canto meditata e ben realizzata, con eguale evidenza per l’afflato lirico e la tensione drammatica. Non analoga eleganza riesce a mettere in campo il tenore Walter Fraccaro, un Alvaro dai mezzi vocali potenti ma ruvidamente gestiti in un fraseggio deficitario specialmente nei passaggi recitativi. Voce interessante e ben condotta, per quanto poco adatta al ruolo per presenza e intensità, ha il baritono Dalibor Jenis, Don Carlo di Vargas (il fratello di Leonora, che la passa a fil di lama nel finale) mentre emerge con limpida efficacia l’altro baritono, Gezim Myshketa, che ha dato presenza vocale e scenica di notevole efficacia al singolare ruolo di Fra’ Melitone, trovando la linea della brillantezza fuori dalla banale comicità cui spesso il ruolo è ridotto. Il padre guardiano avrebbe avuto bisogno di voce più corposa e di tenuta più incisiva di quanto ha fatto Simon Lim, di sicuro più efficace, peraltro, del flebile Carlo Cigni nella breve parte del marchese di Calatrava (è lui che finisce ammazzato per sbaglio). Discreto lo smalto di Chiara Amarù, una Preziosilla ammiccante e ironica, troppo caricaturale il rivendugliolo di Francesco Pittari. Ordinato, ben presente il coro istruito da Vito Lombardi.

Ottime accoglienze alla prima con frequenti applausi a scena aperta.

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