Opera

I fremiti del cuore del giovane Rossini

"L'inganno felice", grande successo del compositore di Pesaro quando non aveva ancora 20 anni, è tornato al Rof nell'allestimento firmato nel 1994 da Graham Vick. Lirismo e dramma fino allo scioglimento positivo. Equilibrata e interessante compagnia di canto, con due giovani protagonisti

Dalla mattina al calar del sole. Anzi, alla “tacita notte amica” durante la quale L’inganno felice scioglie la sua vicenda, il bene trionfa e la fedeltà coniugale vede riconosciuta tutta la sua virtù. C’è unità di tempo, di luogo e di azione nello spettacolo che 21 anni fa, nel 1994 vide debuttare al Rossini Opera Festival il regista inglese Graham Vick, riproposto quest’anno per la prima volta, a completare il trittico operistico aperto dalla premiata Gazza ladra di Damiano Michieletto e costituito anche dalla nuova Gazzetta firmata da Marco Carniti.

Con la fondamentale collaborazione di Richard Hudson per scene e costumi, Vick impagina l’operina giovanile di Rossini in una scena unica che sintetizza tutti gli elementi della vicenda: c’è la miniera presso la quale si svolge la vicenda ma c’è anche sullo sfondo il mare, che doveva essere “giustiziere” della protagonista, invece salvata dalle acque per poter costruire dopo anni il suo riscatto. Un minuscolo veliero attraversa la linea dell’orizzonte, segnando il fluire del tempo con effetto naïf in parallelo con il ben più sofisticato gioco illuminotecnico (progetto di Matthew Richardson).

Clamoroso successo veneziano (teatro San Moisè, gennaio 1812) di un Rossini non ancora ventenne, che conobbe così per la prima volta il “furore” entusiastico del suo pubblico, L’inganno felice fa parte del gruppo di cinque “farse” (ovvero opere in un atto) che fecero da trampolino per il suo lancio nell’empireo operistico nazionale ed è un lavoro singolarmente fervido di implicazioni per il futuro destino del melodramma italiano. Il genere è quello di “mezzo carattere”, peraltro efficacemente declinato (merito del libretto di Giuseppe Foppa) secondo lo schema drammaturgico alla francese allora fresco di moda, quello della cosiddetta “pièce à sauvetage”. Elementi lirici e brillanti scorrono in parallelo con un “plot” dominato dalla corda drammatica dell’ingiustizia (subita prima) e del pericolo di vita (nuovamente concreto) di cui è vittima la protagonista: moglie fedele, vittima del complotto di uno spasimante respinto che ha convinto il marito a disfarsi della donna, facendola credere infedele.

In chiave shakespeariana non c’è redenzione possibile e non c’è salvezza. Nel melodramma post-rivoluzione francese di primo Ottocento la salvezza arriva quando tutto sembra perduto; in questa mirabile “opera sintetica” il lieto fine giunge dopo un articolato gioco di riconoscimenti sognati e/o temuti, di soprassalti sentimentali e psicologici. La partitura rossiniana vi aderisce con una ricchezza di soluzioni davvero formidabile e con un’originalità colta fin dal suo primo apparire, se è vero che fu subito identificata per quello che era, la manifestazione di un genio che stava per fiorire. Lo stile del belcanto italiano proveniente dall’ultima fase del melodramma metastasiano si piega a una nuova espressività, cui contribuiscono con magnifica quanto insolita evidenza i colori dell’orchestra. E la forzata concentrazione formale imposta dal genere “farsa” in un atto, invece di risultare un limite diventa l’occasione per una drammaturgia limpidissima, nella quale arie solistiche e numeri d’insieme delineano una scansione serrata e poetica, fino al meraviglioso finale, che inizia con il velato e misterioso richiamo dei corni dentro alla “tacita notte amica” e giustappone illusioni e timori, pericolo e amore fino a quando “il ciel clemente corona l’innocente e punisce il traditor”.

Lo spettacolo di Vick, disegnato dentro a una pittorica marina nordica e “decorato” con eleganti costumi ottocenteschi, segue con minuziosa consapevolezza fremiti e batticuori, aneliti alla vendetta e al riscatto; soprattutto, dà ragione con immediatezza delle peculiarità dell’invenzione rossiniana, profonda e già matura nel delineare i trasalimenti del cuore, su cui il melodramma romantico costruirà la sua fortuna.

Sul podio della volenterosa Orchestra Sinfonica Rossini, Denis Vlasenko dà spesso l’idea di rimanere, con qualche circospezione di troppo, nel generico, senza trovare profondità alla vena lirica e drammatica né leggerezza a quella brillante, che pure è consistente. La compagnia di canto, composta da varie giovani voci “forgiate” dal lavoro alla benemerita Accademia Rossiniana di Alberto Zedda, si batte invece assai bene. Al suo primo ruolo da protagonista al Rof, il soprano Mariangela Sicilia si fa valere per duttilità espressiva, precisione nel controllo e nel colore, eleganza stilistica. Appropriato il tenore Vassilis Kavayas, che fraseggia con buona intensità, efficace l’esperto basso Carlo Lepore nel ruolo più brillante dell’opera, risolto con leggerezza e apprezzabile pienezza vocale; incisivi sia Davide Luciano che Giulio Mastrototaro.

Tutti sono stati molto apprezzati dal pubblico.

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