Opera

Orfeo come un rito all’Olimpico

Il capolavoro di Gluck per la prima volta nel teatro palladiano a conclusione del festival Vicenza in Lirica. Produzione pensata per lo spazio monumentale, a firma di Andrea Castello e Francesco Erle

La “mente” della cosiddetta riforma operistica di Gluck e Calzabigi – in realtà esperienza di tre sole opere, destinata a restare sostanzialmente isolata e dare i frutti più significativi molto tempo dopo – è per molti aspetti il nobile genovese Giacomo Durazzo, “Generalmusikdirektor” di Sua Maestà Imperiale Maria Teresa d’Austria. A capo dei teatri e dei concerti viennesi in un decennio molto vivace come quello fra i Cinquanta e i Sessanta del Settecento, Durazzo potè far valere la sua “linea” innovativa grazie al fatto di avere un padrino politico molto potente, il ministro degli esteri dell’imperatrice, principe di Kaunitz, che lo stimava molto al contrario della sospettosa testa coronata che non lo amava per nulla. E grazie, naturalmente, ad alcuni autori particolarmente “recettivi”, capaci di trasformare in opere artisticamente ammalianti quanto innovative il desiderio di cambiamento nell’opera italiana di cui Durazzo non era certo l’unico esponente, ma sicuramente uno dei più colti, influenti e quindi decisivi.

Il conte genovese amava l’opéra-comique francese, con le sue semplificazioni e la sua teatralità a base di recitazione e non di canto e ne fece rappresentare molte a Vienna, affidandole spesso proprio a Gluck. E pensava che l’opera seria italiana dovesse percorrere un itinerario simile, se non uguale, puntando a un’essenzialità drammatica contro gli abusi vocalistici che corrispondeva al dettato della speculazione illuministica più avanzata. Così, l’arrivo a Vienna da Parigi (chiamato da Kaunitz) del letterato italiano Ranieri Calzabigi, a sua volta propugnatore di intenti riformistici in direzione opposta alla poetica metastasiana, divenne l’occasione per mettere in pratica la teoria, con la puntuale e fervida collaborazione di un musicista eclettico e attento alle esigenze della committenza come Gluck.

Il primo passo della riforma, Orfeo ed Euridice (5 ottobre 1762), nacque peraltro nella cornice aulica delle opere enocomiastiche d’occasione, le cosiddette Feste o Azioni teatrali. E risente dunque di vari condizionamenti tradizionali. Ma non cessa di emozionare il pubblico, oggi come ieri, per la forza delle sue soluzioni drammatiche, la profondità del rapporto finalmente paritetico tra parola e musica, la ricchezza di quest’ultima, che cancella il ruolo subalterno degli accompagnamenti per assurgere a ruolo protagonistico, così come avviene per i cori, rigorosamente omofonici e dunque più immediati e comunicativi.

Saldamente presente nel repertorio, l’Orfeo gluckiano è ora approdato grazie al festival Vicenza in Lirica anche al Teatro Olimpico di Vicenza, dove non era mai stato rappresentato. E lo ha fatto in una versione semplice quanto sostanziosa, capace in virtù della sua linearità di mettere in evidenza la profonda sintonia esistente fra lo spazio scenico inventato da Palladio e Scamozzi sul finire del ‘500 e la nobile aspirazione classicistica di Calzabigi e di Gluck.

Nella prima parte, lo spettacolo è forse risultato qua e là acerbo sul piano tecnico e pratico, con luci e movimenti che avrebbero avuto di bisogno di una maggiore fluidità ed efficacia; nella seconda parte tutto è apparso più concentrato e coinvolgente. In generale, la rappresentazione è stata convincente sul piano dell’ideazione, volta a creare un rapporto con lo spazio olimpico, come quasi mai si vede in tanti altri allestimenti che pure vi nascono. Facendo interagire i personaggi in pari misura con la parola drammatica di Calzabigi, con la musica plastica e monumentale di Gluck e con l’architettura concreta e “sognata” di Palladio.

Definito semi-scenico, ma a suo modo completo, l’allestimento era firmato a quattro mani dal direttore d’orchestra Francesco Erle e dal responsabile del festival Andrea Castello, entrambi al debutto nella regia. Produzione spartana eppure accattivante: un solo segno scenografico, davanti alla “porta regia” della “frons scenae”: un frammento di capitello in stile ionico dietro a cui c’è il catafalco di Euridice, portata in scena in corteo funebre sul coro iniziale. Costumi (Roberta Sattin) astratti nel vago riferimento alla classicità greca con l’unica concessione emotiva al rosso fuoco della tunica di Amore.

Un gran lavoro ha compiuto Francesco Erle, che nel recuperare la versione originale della partitura non ha rinunciato ai magnifici Balli del secondo e specialmente del terzo atto, trovando ottima risposta nel manipolo di sperimentati strumentisti che ha riunito per l’occasione. Esecuzione in parti reali, uno strumento per ciascuna, con suono tuttavia corposo e nitido, flessibile ed evidente. Si gustano raffinatezze come i timpani “assordati” (ricoperti da un velo nero) e le trombe rivestite da un drappo a lutto nella scena iniziale; si apprezza la scelta del clarinetto in eco (fuori scena) per rendere il dialogo fra la voce di Orfeo e lo chalumeau nella sua prima aria. La scelta stilistica di Erle vede quest’opera come un singolare incrocio fra lo stile tardo-barocco e il nascente Classicismo: fraseggio rigoroso ma animato da interiore sottile libertà dinamica e di tempo, colori raffinati (superba la scena ai Campi Elisi), forte espressività negli inserti corali, tensione drammatica negli accompagnamenti dei recitativi, fondamentali per delineare appieno la temperatura emotiva della vicenda.

Scelte e preparate da una grande specialista come il contralto Sara Mingardo, le tre giovani cantanti protagoniste si sono fatte valere non senza qualche acerbità nella caratterizzazione scenica. Il contralto Francesca Biliotti ha voce fascinosa e stile ben rifinito: il suo Orfeo è giocato nella sottigliezza della linea di canto, a volta a discapito dell’intensità, ma con un colore che colpisce. Svetta per incisività l’Euridice del soprano coreano Mina Yang, che colora di drammatica tensione il suo ruolo, mentre il soprano Benedetta Corti ha tolto ogni superficialità alla brillantezza esteriore di Amore, deus ex machina che garantisce il lieto fine. Tutte tre, poi, hanno dimostrato l’accuratezza del loro lavoro con una resa di assoluto livello nei fondamentali recitativi. Sempre duttile ed efficace la Schola San Rocco, coro che nel repertorio settecentesco esprime sempre al meglio la propria sensibilità musicale.

Pubblico folto, alla fine dieci minuti di applausi.

Pubblicato su Il Corriere Musicale

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